Sin dalla sua fondazione, quella che oggi chiamiamo Unione europea ha avuto la straordinaria capacità di coniugare un problema concreto, racchiuso intorno alla “questione tedesca”[1], con le aspirazioni a conseguire una unità di valori. Ha saputo tradurre la necessità di trovare una soluzione condivisa alla produzione carbonifera della Ruhr e della Saar in un progetto di gestione comune proiettato verso un nuovo futuro europeo.
Il pragmatismo originale è quello che per certi versi ha accompagnato l’Europa e l’ha spinta verso un’unione sempre più solida. Fu questo il caso nel 1966 dove il Compromesso di Lussemburgo permise di superare la cosiddetta Crisi della sedia vuota e portò all’attuazione del voto all’unanimità con la possibilità per gli stati di appellarsi al veto per proteggere la propria sovranità. Il Single European Act del 1987, successivo alla crisi del sistema di Bretton-Woods, utilizzò l’interesse per la creazione del mercato comune per spingersi un passo più avanti verso l’integrazione politica e monetaria, coronata nel 1992 con la firma del Trattato di Maastricht.
In questo senso la crisi economica del 2008, e la successiva crisi del debito sovrano del 2012, hanno rappresentato un elemento di grande novità: se da un lato lo scetticismo europeo è significativamente aumentato, dall’altro le istituzioni si sono strette nella convinzione che il futuro dell’Europa unita non potesse essere intaccato. Rimase così emblematico il discorso dell’allora Presidente della Banca Centrale europea, Mario Draghi, che alla Global Investment Conference di Londra rivendicò l’impegno per svolgere tutto il necessario con la celebre frase “Whatever it takes”.
Ed è proprio questa capacità di tenuta ad aver permesso all’Unione di compiere passi ulteriori verso l’integrazione. Tuttavia, è utile domandarsi se questo impegno non abbia come comune denominatore la necessità di rafforzare l’integrazione economica che poi, per necessità, si porta con sé quella politica.
Ma perché l’economia come motore dell’Unione?
Il benessere economico permea l’agenda di tutte le nazioni. Per tanti anni si è stati fedeli al paradigma della crescita economica, puramente quantitativa e misurata attraverso il PIL, anche se in misura crescente si fa riferimento a un più ampio concetto di sviluppo. Esso può essere ricollegato alla c.d. “Good governance”, intesa come un processo di trasformazione (economico, sociale e istituzionale) finalizzato all’accrescimento del benessere della popolazione e della democrazia. Lo stesso economista Amartya Sen[2] riconosce nella democrazia un sistema che assicura libertà e sviluppo; la libertà individuale non è solo un obiettivo ma anche un mezzo per promuovere lo sviluppo economico.
Se ci soffermiamo ad analizzare alcune delle più basiche teorie dell’economia dello sviluppo, ci rendiamo conto che il binomio democrazia ed economia è imprescindibile. Uno Stato con istituzioni fragili è maggiormente portato alla povertà poiché l’effetto mitigatore dello Stato, anche se minimo e puramente legato alle politiche economiche, verrà inevitabilmente meno. Del resto, come sostengono Jacob Mincer e Gary Becker, la scelta dell’individuo di investire in capitale umano è determinata dal rendimento che da esso può scaturire: un paese con solide istituzioni potrà offrire maggiori possibilità di realizzazione, giustificando così le spese (economiche e non) investite sull’istruzione. Anche Geoffrey Hodgson afferma che i comportamenti sono influenzati dalle istituzioni, così come gli individui, e quando esse vengono meno o falliscono in una o nell’altra area, fanno aumentare l’incertezza con conseguenze sull’economia reale e non.
Se concettualmente economia e governance vanno di pari passo, anche dal punto di vista pratico il loro andamento non può che essere coordinato. Già nel 1987 le “4 libertà” preannunciate nell’Atto Unico europeo non avrebbero potuto veramente compiersi se non attraverso una maggiore integrazione politica. L’abbattimento dei dazi doganali, già presente dal 1968, non aveva permesso un vero libero scambio tra le frontiere proprio a causa delle diverse normative nazionali. Anche la libera circolazione delle persone sarebbe stata complessa senza politiche di frontiera e sicurezza coordinate. Ed è così che ai criteri di convergenza del Trattato di Maastricht si aggiunse il rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo (democratizzazione), si introdusse il concetto di cittadinanza europea, si gettarono le basi per una politica estera e di sicurezza comune oltre che l’inaugurazione di nuove forme di cooperazione tra i governi in materia di giustizia e affari esteri.
E l’Unione europea dove si posiziona?
Se l’idea di un’Europa federale come auspicava il Manifesto di Ventotene è stata promossa e abbandonata a più riprese, non si può negare che negli ultimi settant’anni l’Europa si sia unita sotto una molteplicità di aspetti spinta dall’evolversi dei suoi obiettivi. Nel seguito avremo modo di riflettere sulle “Political Guidelines for the next European Commission 2024-2029” proposte a luglio 2024 da Ursula von der Leyen in vista della sua seconda corsa a presidente della Commissione europea. Prima di analizzare il documento nel suo insieme e alcuni dei suoi punti salienti, occorre sottolineare che nei mesi recenti gli eventi e gli equilibri internazionali hanno subìto scosse importanti, soprattutto per quanto riguarda le alleanze europee e i rapporti che sono stati certezze sin dal 1945. Le recenti elezioni americane, il raffreddamento delle relazioni all’interno della Nato, la nuova guerra dei dazi, il Summit di Londra del marzo 2025 o ancora il ReArm Europe Plan/Readiness 2030 non verranno analizzati dettagliatamente ma in relazione al loro impatto sul progredire valoriale dell’Unione.
Se per Amartya Sen cultura e democrazia assumono un ruolo prioritario rispetto ad ogni azione puramente economica[3], le proposte di Ursula von der Leyen sembrano dedicarsi prioritariamente alla questione economica. Le linee guida proposte sono in totale sette: (1) un nuovo piano per la prosperità sostenibile e la competitività dell’Europa; (2) Una nuova era per la difesa e la sicurezza europee; (3) Sostenere le persone e rafforzare le nostre società e il nostro modello sociale; (4) Mantenere la qualità della vita: sicurezza alimentare, acqua e natura; (5) Proteggere la nostra democrazia, difendere i nostri valori; (6) Un’Europa globale: fare leva sulla nostra forza e sui nostri partenariati; (7) Raggiungere insieme gli obiettivi e preparare l’Unione al futuro. Tuttavia, le righe e l’attenzione dedicate alla prima linea guida sono evidentemente superiori, anche alla luce dell’innegabile declino dell’economia europea.
Un nuovo piano per la prosperità sostenibile e la competitività dell’Europa[4]
Il piano per la prosperità sostenibile e la competitività dell’economia europea si articola in sette punti fondamentali: agevolare attività economiche e approfondite il mercato unico; stabilire un patto per l’industria pulita per decarbonizzare e abbattere i prezzi dell’energia; mettere la ricerca e l’innovazione al centro della nostra economia; stimolare la produttività con la diffusione delle tecnologie digitali; investire in modo massiccio nella competitività sostenibile; ovviare alla carenza di competenze e manodopera. La proposta della von der Leyen si costruisce proprio, come da lei stessa enunciato, su quello che allora era “l’imminente rapporto di Mario Draghi sulla competitività”.
Del resto, dopo la pubblicazione dello stesso, la Commissione europea ha emanato il Competitiveness Compass (in italiano, Bussola per la Competitività), ovvero un piano strategico che a partire da innovazione, sostenibilità e resilienza economica, è finalizzato al rafforzamento della competitività europea nel mondo. Tra i temi preminenti vi è la necessità di incrementare in misura massiccia gli investimenti nell’Unione così da rendere l’Europa più competitiva, necessità vitale per il suo futuro economico e politico.
Tuttavia, come lo stesso Draghi sottolinea, l’Europa è ancora lontana dall’efficienza necessaria poiché manca di una visione chiara, in grado di definire e sostenere adeguatamente obiettivi comuni. A questo si aggiunge un sistematico spreco di risorse dovuto soprattutto alle ingerenze nazionali che assottigliano la pur importante capacità di spesa dell’Unione, tanto da rendere impossibile massimizzare i rendimenti delle economie di scala. Infine, viene meno un coordinamento a livello di politiche, da quelle industriali a quelle fiscali o commerciali. Infine, il processo di definizione politica è troppo lento, nella sua articolazione a più livelli e con un tempo decisionale di più o meno diciannove mesi[5].
E la democrazia?
A fronte di quanto analizzato sopra, appare evidente che l’obiettivo della “prosperità europea” necessiti di importanti interventi e prese di responsabilità. Sono importanti i campi dove l’Unione deve intervenire, ma soprattutto sono numerosi gli sforzi da compiere verso un’Unione di fatto che sia sempre più politica.
Quando pensiamo all’esperienza politica europea non possiamo che ragionare sui valori fondamentali che l’hanno vista nascere, primo fra tutti la democrazia e lo Stato di diritto. Nelle sue proposte però Ursula von der Leyen posiziona questi obiettivi solo come quinto punto del suo programma. D’altro canto, anche il sostegno al mondo sociale e all’equità sociale nell’economia moderna si posizionano abbastanza in basso. Se da un lato si riconosce la crescente esposizione dei sistemi democratici, nel concreto il rafforzamento dello Stato di diritto non si pone come obiettivo prioritario. Si ha piuttosto l’impressione di una elencazione di principi e sensi di appartenenza che dovrebbero rafforzarsi ma senza ben specificare come.
Ma se l’Unione del futuro per sopravvivere deve puntare su un rinnovato coordinamento politico, non è proprio il senso di appartenenza a fare la differenza? Come lo stesso Presidente Draghi ha esortato lo scorso 18 febbraio davanti al Parlamento europeo “Do Something!”, fate qualcosa. Un qualcosa che a livello istituzionale è ancora molto difficile per questioni che toccano interessi nazionali, posizioni di potere e soprattutto considerazioni di opportunità politica di corto respiro. Finché in Europa continuerà l’ondata sovranista e le posizioni delle diverse delegazioni rifletteranno preoccupazioni legate al consenso politico e non al bene dell’Unione, la strada continuerà ad essere in salita.
La via dell’appartenenza costruita tramite istituzioni forti, che siano davvero all’altezza della fiducia e delle speranze dei cittadini; in altre parole la riaccensione di quel “sogno europeo” che più di settant’anni fa ha dato vita al grande progetto europeo, può essere l’unico elemento che porterà veramente a “Do something!”.
[1] Dichiarazione di Robert Schuman del 9 maggio 1950 che diede origine al processo di integrazione europea.
[2] Economista e filosofo indiano, già premio Nobel per l’economia nel 1998. Ideatore della Teoria delle capabilities, nelle quali lo sviluppo umano comprende in sé crescita economica e libertà positive.
[3] Treccani, “Amartya Sen, Teorie per il cambiamento”, 2019.
[4] “PoliticalGuidelines for the nextEuropean Commission 2024-2029” di Ursula von der Leyen per la candidatura alla presidenza della Commissione europea.
[5] Asvis, “Rapporto Draghi: futuro della competitività sfida esistenziale per l’Ue”.