Immigrazione – Una prospettiva di genere sulle richieste di asilo per le donne vittime di violenza domestica

Migliaia sono le persone che, ad oggi, cercano rifugio in Europa nella speranza di una vita migliore. Una vita lontana dalle guerre, dalle devastazioni, dalla fame. La parola “rifugio” è qui centrale. Esso, per definizione, rappresenta un luogo in cui essere al sicuro. Ma l’Europa può ancora essere uno spazio di sicurezza? Soprattutto, ne ha ancora l’intenzione e la capacità? Il tentativo politico di “esternalizzare le frontiere” e affidare a paesi terzi – spesso non sicuri – la gestione delle richieste di asilo è un chiaro sintomo di un’Europa che sembra voler essere una fortezza difficilmente penetrabile. Al contempo, le Corti internazionali sottolineano l’illegittimità di alcune scelte, ricordandoci che l’UE affonda le sue radici proprio nel desiderio di integrazione e solidarietà fra gli Stati dopo lunghi anni di odio e distruzione.

Restringendo ulteriormente il nostro campo di osservazione e tentando di riflettere sulle domande precedenti, è opportuno porsi in una prospettiva di genere per quanto concerne le richieste di una forma di protezione internazionale (in particolare, il riconoscimento dello status di rifugia o di protezione sussidiaria).

Per le donne migranti vittime di violenza domestica, chiedere protezione a un paese europeo significa spesso (soprav)vivere. Eppure, non è raro che le loro richieste vengano rifiutate dagli Stati valutatori, che altrettanto non raramente attuano un processo di vittimizzazione secondaria. Ad esempio, il solo fatto che una donna abusata riesca ad abbandonare il proprio paese e a presentare, autonomamente, una domanda di asilo è considerato motivo sufficiente per mettere in dubbio la sua necessità di protezione dal marito violento, dal quale ella teme di essere uccisa rimanendo nel luogo di origine. A fronte di questo, è doveroso tornare sui due quesiti di partenza al fine di aggiungerne un terzo, più specifico: come può una donna vittima di violenza, che trova la forza di lasciare tutto, credere che l’Europa, quella stessa Europa che le chiude le porte, sia una terra di accoglienza e non, come detto, una fortezza?

 Il “debito” del diritto verso il genere femminile e la Convenzione di Istanbul

Nessuna disciplina è neutra — tantomeno il diritto. Per molto tempo, infatti, esso è rimasto estraneo a una lettura che tenesse conto delle problematiche di genere. A tal proposito, il femminismo giuridico parla di un “debito del diritto”[1] verso le donne. A livello europeo, ciò che ha segnato un primo passo importante verso l’estinzione di tal debito è la Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul), in vigore dal 2014 e vincolante, per gli Stati membri, dall’ottobre 2023. A più di dieci anni di distanza, è possibile rilevare un aumento delle denunce alle autorità da parte delle donne[2]. Questo dato non è da interpretare solo in chiave negativa, ma bensì come il simbolo di qualcosa che, su più livelli, rinnova la sua forma. Forme di violenza come lo stalking o i matrimoni forzati, per molto tempo normalizzati, godono ora della giusta valutazione culturale e giuridica[3]. Non solo: è grazie alla interpretazione della Convenzione stessa se, per paesi come la Bulgaria, membro dell’UE che non ha ratificato il documento, alcune richieste di asilo non vengono più rigettate, ma accolte. L’Unione Europea arriva così a rappresentare uno spazio aperto dove il rischio di attuare un meccanismo di vittimizzazione secondaria diminuisce. In tal senso, sono proprio gli articoli 60 e 61 della Convenzione, centrali per il nostro discorso, a sancire specifiche norme per la gestione delle domande di protezione, come la garanzia che la violenza contro le donne costituisca una persecuzione basata sul genere e, di conseguenza, sia motivo sufficiente per il riconoscimento dello status di rifugiata. O ancora, il divieto di espellere donne vittima di violenza di genere in paesi che le metterebbero a rischio di subire ulteriori traumi fisici e psicologici.

Il caso C-621/21 e la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE)

Poco più di un anno fa, a gennaio 2024, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata positivamente, riprendendo proprio quanto stabilito dagli articoli 60 e 61 della Convenzione di Istanbul, in merito alla richiesta di protezione internazionale presentata da WS, una cittadina turca, presso le autorità bulgare — il riferimento nel paragrafo precedente era, dunque, tutt’altro che casuale. Ma procediamo per gradi, riassumendo brevemente il contesto del caso[4]. WS giunge legalmente in Bulgaria nell’estate del 2018. Prima di quel momento, è vittima delle violenze fisiche e psicologiche del marito, col quale è stata costretta a sposarsi, nel paese di origine. La donna non può contare sull’aiuto della famiglia biologica poiché questa, nonostante sia a conoscenza della situazione, non interviene in alcun modo. Così, nel 2019, dopo aver divorziato ed essere riuscita ad andarsene dalla Turchia, chiede una prima concessione dello status di rifugiata alle autorità bulgare. Quest’ultime rispondono negativamente alla richiesta poiché le violenze subite non rientrano nei motivi di persecuzione ai fini del riconoscimento. Alla donna non è concessa nemmeno la protezione sussidiaria, a cui potrebbe aver diritto in base alla Direttiva 2011/95, poiché a rischio di subire un “grave danno” in caso di rimpatrio— per la richiedente, esso è dato dal rischio di essere vittima di delitto d’onore. Dopotutto, sostiene la Bulgaria, ella non ha denunciato le aggressioni e, come già detto, è riuscita a trasferirsi legalmente. Tuttavia, WS persiste e presenta nuove domande, a cui allega nuove prove della sua situazione. La richiedente dichiara di avere diritto una protezione internazionale in quanto facente parte di un particolare gruppo sociale, ovvero quello delle donne vittime di violenza, e di essere una potenziale vittima di delitto d’onore in caso di rimpatrio. Le autorità turche, infatti, non potrebbero proteggerla. Con queste ulteriori aggiunte, WS soddisfa i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiata, nonché quelli per la protezione sussidiaria. Siamo ad aprile 2021. Il tribunale amministrativo di Sofia decide di sospendere il procedimento e di rinviare la decisione alla CGUE, alla quale sottopone alcuni quesiti pregiudiziali. Due sono quelli più rilevanti ai fini del nostro discorso: nel valutare la domanda di WS, la Bulgaria deve tenere conto di quanto stabilito dagli articoli 60 e 61 Convenzione di Istanbul, pur non avendola ratificata? Il delitto d’onore costituisce il rischio di subire un “danno grave” in caso di rimpatrio? La Corte risponde positivamente ad entrambe le domande. Nonostante non abbia ratificato la Convenzione, in quanto membro dell’UE, la Bulgaria deve interpretare la Direttiva 2011/95 alla luce della stessa[5]. Inoltre, la Bulgaria deve attenersi all’art. 78 del TFUE, il quale sancisce una politica comune europea in materia di asilo. Politica che può essere davvero comune solamente se anche il documento a contrasto della violenza di genere diventa un fondante strumento interpretativo.

In conclusione, appare evidente come la strada da percorrere rimanga ancora lunga e non univoca. Allo stesso modo, l’Unione Europea sembra, spesso, come un progetto imperfetto e contraddittorio. Tuttavia, il ruolo della CGUE e la forza di donne come WS, che, con la loro tenacia favoriscono un’evoluzione, si possono ancora intravedere delle luci di speranza. Luci che ci conducono verso ulteriori quesiti i quali, sommati a quelli di partenza, rendono impossibile fornire risposte esaustive. Come considerare il rifiuto di asilo politico a una donna abusata se questa non denuncia le violenze subite? Inoltre, esso non costituisce un’ulteriore violenza? A fronte di questa riflessione, la risposta spetta al singolo. E, soprattutto in questo caso, alle donne.

[1] Elisabetta Belardo, La protezione internazionale delle donne migranti vittime di violenza di genere.

[2] Sara De Vido, 10 anni dalla Convenzione di Istanbul [https://www.unive.it/pag/14024/?tx_news_pi1%5Bnews%5D=10588&cHash=9496849e2ef3f02f326331dbcbaa9ef5

[3] Ibid.

[4] https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf;jsessionid=C315C84292FFC420199941751D1B81A0?text=&docid=281302&pageIndex=0&doclang=IT&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=3770481

[5] Sara De Vido, La Convenzione di Istanbul quale strumento interpretativo del diritto derivato dell’UE in situazioni di violenza contro le donne: la sentenza C-621/21 della CGUE.

 

 

 

 

 

 

 

 

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