Parlare oggi di cambiamento climatico e inquinamento è diventato una sorta di leit motiv. Le cronache sono ormai infarcite di notizie di alluvioni, incendi di proporzioni catastrofiche, uragani, siccità in regioni un tempo rigogliose e l’inesorabile innalzamento del livello del mare che sta già esponendo le piccole isole del Pacifico di fronte a situazioni drammatiche. Tutto questo accade con tale frequenza da non far più notizia. Ma, si sa, l’abitudine anestetizza. Eppure, quei disastri naturali sono tutto fuorché normali: sono l’urlo della Terra che non riusciamo più a ignorare. E davanti a questo grido, il tempo delle promesse è finito: servono azioni concrete, ora.
E l’Europa? Il vecchio continente si vanta di essere all’avanguardia, ma quanto è vera questa narrazione? Se all’inizio l’integrazione europea seguiva logiche economiche, nel 1972 arrivò un sussulto: al Consiglio europeo di Parigi si parlò per la prima volta di ambiente, introducendo alcuni principi, come quello di “chi inquina paga” o di azione preventiva, che sono diventati dogmi europei. Ma tra il dire e il fare, si sa, c’è di mezzo un mare. E quel mare, oggi, sembra sempre più agitato.
Nel 2019, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha sfoderato la sua carta più verde: il Green New Deal. Una strategia dal nome altisonante che prometteva di rendere l’Europa il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050. Un progetto ambizioso, visionario, addirittura poetico. Peccato che nel frattempo il mondo reale abbia bussato forte alla porta: una pandemia globale, una guerra alle porte dell’Unione, una crisi energetica che ha colpito duramente intere economie e una probabile nuova guerra commerciale ad opera della nuova amministrazione Trump.
E così, dopo cinque anni di elaborazione politica e legislativa, il Green Deal, una volta pilastro della commissione von der Leyen, è oggi al centro di tensioni politiche e scetticismi, anche da chi lo aveva promosso. I suoi stessi sostenitori iniziano a prenderne le distanze. Le piazze agricole si sono riempite di trattori in protesta contro regolamenti percepiti come iniqui e scollegati dalla realtà. Leader europei un tempo entusiasti, come il francese Macron o l’ex Primo ministro belga De Croo, oggi frenano, chiedono pause, rinvii, riscritture. La Commissione europea ha iniziato a smontare pezzo dopo pezzo le sue stesse promesse: si riaprono dossier chiusi, si annacquano leggi sulla deforestazione, si rimanda la stretta sui motori a combustione. E intanto il Partito Popolare Europeo (PPE), con von der Leyen in testa, sembra più preoccupato di non perdere voti alle prossime elezioni che di salvare il pianeta.
Scrivere il Green Deal era facile. Applicarlo? Decisamente meno. Ora che il Green Deal entra nella sua fase esecutiva, sarà proprio l’applicazione concreta nei singoli Stati membri a dirci se l’Europa crede davvero nelle sue promesse verdi o se tutto era solo propaganda elettorale ben confezionata. Decarbonizzare settori come edilizia e trasporti significa cambiare il nostro modo di vivere, e non tutti sono pronti a pagarne il prezzo. Ora la transizione verde entra nelle case, nei portafogli, nei garage dei cittadini europei ed è lì, dove tocca gli interessi concreti, che mostra tutta la sua fragilità. Ogni transizione, che sia digitale, energetica o ecologica, è una rivoluzione industriale. E le rivoluzioni costano: miliardi e miliardi di risorse pubbliche.
Da qui il tentativo di rattoppare il Clean Industrial Deal, la nuova formula magica che dovrebbe conciliare industria e ambiente. Noto anche come “Patto per un’industria pulita“, è un’iniziativa dell’Unione Europea volta a decarbonizzare i settori industriali rafforzando, al contempo, la loro competitività su scala globale. L’obiettivo è quello di coniugare transizione ecologica e prosperità economica. Cemento, acciaio, chimica: i peggiori inquinatori devono produrre pulito. Ma con quali strumenti? Con quali materie prime? E soprattutto con quale sistema fiscale se al momento non incentiva nessuno?
Questa nuova strategia industriale deve quindi creare le giuste condizioni per gli investimenti. Ciò implica, innanzitutto, rendere le fonti di energia rinnovabile più facilmente accessibili e incentivarne l’utilizzo attraverso misure come i crediti d’imposta, la riforma dei mercati delle materie prime e altre iniziative. Al contempo, sarà necessario snellire le procedure burocratiche (senza compromettere gli obiettivi della politica climatica), ad esempio velocizzando il rilascio dei permessi e facilitando l’accesso a finanziamenti e mercati. In questo modo si potranno attivare le risorse necessarie tanto per la crescita dei produttori di tecnologie pulite quanto per la riconversione delle industrie ad alta intensità energetica.
Mentre si sogna un’Europa più green, l’industria paga l’energia più cara del mondo, le imprese fanno fatica ad adattarsi ai continui cambiamenti legislativi e gli investimenti in tecnologie chiave come l’intelligenza artificiale sono esigui: 20 miliardi di euro in dieci anni, contro i 100 della Cina e i 330 degli Stati Uniti.
Si può davvero credere in una transizione equa con queste premesse? Il Green Deal, nero su bianco, è un progetto brillante, ma la possibilità che esso venga effettivamente realizzato nei prossimi anni dipenderà in gran parte dalla capacità dell’Unione Europea di adottare un insieme coerente di politiche che uniscano la decarbonizzazione con iniziative volte a rafforzare la competitività economica e la coesione sociale. In questo contesto, uno degli obiettivi principali della nuova Commissione europea dovrà essere quello di promuovere con decisione un ambizioso Clean Industrial Deal, seguendo anche la linea tracciata nel rapporto Draghi.
In conclusione, l’Unione Europea deve continuare a vantare a livello globale le sue politiche ambientali più avanzate, basti pensare ai regolamenti su plastica monouso, sulla qualità dell’aria, o ancora il regolamento REACH che si occupa della restrizione delle sostanze chimiche nocive, ma deve pure tener conto che questo sogno green non può pesare sulla pelle dei cittadini europei poiché comporta un costo. E quindi viene naturale chiedersi:
Siamo davvero ancora i paladini del clima? O stiamo solo salvando la faccia alle industrie, fingendo di salvare il pianeta?
FONTI:
Iannone, Roberto Francesco. Il danno ambientale. Tutela ambientale, responsabilità e determinazione del danno. Pisa: Pacini Giuridica, 2023, pp. 7-8.
Commissione Europea. Green Deal Europeo. Disponibile su: https://www.commissione.europa.eu
Commissione Europea. Patto per l’industria pulita. Disponibile su: https://www.commissione.europa.eu
Tagliapietra, Simone. “L’UE non cambia rotta”, in We 63 – New Equilibria, World Energy Magazine, Eni, pp. 43-47. Disponibile su: https://www.eni.com/static/it-IT/world-energy-magazine/new-equilibria/We_63_ita.pdf
Draghi, Mario. Il rapporto sul futuro della competitività europea. Disponibile su: https://documenti.camera.it/leg19/dossier/pdf/AT033.pdf
Orsini, Emanuele. Relazione del presidente di Confindustria all’assemblea della Confederazione degli industriali. Disponibile su: https://www.startmag.it/economia/relazione-emanuele-orsini-confindustria/
Le proteste degli agricoltori, Zanichelli. Disponibile su: https://ultimora.zanichelli.it/diritto/materie-diritto/diritto-internazionale/le-proteste-degli-agricoltori-in-tutta-europa/