Partenariato UE-ACP: tra passato e futuro, il punto sull’Accordo di Cotonou

Logo del Gruppo ACP affiancato alla bandiera dell'Unione Europea.
Autore: Pietro Naj-Oleari. Copyright: © European Union 2013 – European Parliament.

L’Accordo di Cotonou, la cui scadenza è prevista per il 29 febbraio 2020, ha disciplinato per venti anni il partenariato tra l’Unione Europea e il Gruppo degli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP). La conclusione dell’accordo, firmato il 23 giugno 2000 nello Stato africano del Benin, ha rappresentato l’ultima tappa in ordine di tempo nelle relazioni tra l’Unione Europea e questo variegato insieme di Paesi extraeuropei, legati al Vecchio Continente da un fitto intreccio di relazioni post-coloniali. In effetti, tale percorso comune ha avuto inizio molto tempo prima, tanto che per ricostruirne le fasi occorre risalire alla conclusione dei Trattati di Roma, la cui Parte IV disciplinava l’associazione dei Paesi e Territori d’oltremare alla costituenda Comunità Economica Europea.

In seguito, sulla scorta della nuova sensibilità suscitata dalla grande ondata di decolonizzazione degli anni Sessanta, fu sottoscritta la Convenzione di Yaoundé, firmata nella capitale del Camerun il 20 luglio 1963 dai Paesi della Comunità Economica Europea e dagli Stati africani e malgascio associati. Successivamente rinnovata nel 1969, essa ha segnato il passaggio da una association octroyée a una association négociée, in cui le relazioni eurafricane non erano più disciplinate da un atto unilaterale dei Paesi europei, bensì da un trattato fondato sul diritto internazionale.

Il tema dell’associazionismo con i Paesi extraeuropei tornò in auge nella prima metà degli anni Settanta, come conseguenza dell’ingresso britannico nella Comunità Economica Europea. Il Regno Unito, interessato a mantenere i propri legami con il Commonwealth, ottenne che al trattato di adesione venisse annesso un protocollo con cui la Comunità invitava alcuni Paesi del Commonwealth a negoziare accordi di associazione o accordi commerciali. Parallelamente, si andava formando un Gruppo di quarantasei Stati indipendenti, comprendente nazioni dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico, con l’obiettivo di negoziare con la CEE in maniera unitaria ed efficace. Tale raggruppamento, noto come Gruppo degli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP), costituito da Paesi che in precedenza avevano operato in tre organismi distinti (SAMA, OUA e Commonwealth), venne istituzionalizzato e si diede una struttura permanente con l’Accordo di Georgetown, firmato il 6 giugno 1975. Dopo intense trattative, fu sottoscritta la Convezione di Lomé, firmata il 28 febbraio 1975 nella capitale del Togo, con cui l’associazione veniva estesa a quarantasei Paesi ACP, tra cui molte ex colonie britanniche. La Convenzione di Lomé, rinnovata diverse volte prima di essere sostituita dall’Accordo di Cotonou, ha disciplinato il partenariato tra la Comunità Economica Europea (in seguito Unione Europea) e il Gruppo degli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico tra il 1975 e il 2000.

Alla vigilia della scadenza dell’Accordo di Cotonou, sono in molti a chiedersi quale sarà il futuro del partenariato UE-ACP. L’accordo disciplina le relazioni tra l’Unione Europea e settantanove Paesi extraeuropei (quarantotto dell’Africa subsahariana, sedici dei Caraibi e quindici del Pacifico), includendo una popolazione pari a oltre un miliardo e mezzo di persone, e si fonda sui tre pilastri della cooperazione allo sviluppo, della cooperazione economica e commerciale e della dimensione politica. Esso mira a ridurre la povertà e, in prospettiva, a eliminarla, a sostenere lo sviluppo economico, culturale e sociale dei Paesi partner e a incentivare la progressiva integrazione delle rispettive economie nell’economia mondiale. L’Unione Europea finanzia la maggior parte dei suoi programmi di sviluppo per i Paesi partner ACP attraverso il Fondo europeo di sviluppo (FES), il quale ha attualmente una dotazione complessiva di 30,5 miliardi di euro (2014-2020).

A che punto siamo con le trattative per la definizione del regime post-Cotonou? Il 28 settembre 2018 ha avuto luogo a New York l’apertura formale dei negoziati, condotti per la parte ACP da Robert Dussey, Ministro degli Affari Esteri del Togo, e per la parte UE da Neven Mimica, Commissario europeo per la Cooperazione internazionale e lo sviluppo. Al termine del primo ciclo di negoziati, durante un incontro tenutosi a Bruxelles il 14 dicembre 2018, i due capi negoziatori si sono detti soddisfatti dell’andamento delle trattative, avendo riscontrato un’ampia convergenza sulla struttura del futuro accordo e sulle priorità strategiche. Lo stesso compiacimento è stato espresso al temine del secondo ciclo di negoziati, durante un incontro tenutosi il 4 aprile 2019 nella capitale ciadiana N’Djamena. Il 1° dicembre 2019, in concomitanza con l’insediamento della Commissione europea, Jutta Urpilainen, il nuovo Commissario europeo per la Cooperazione internazionale e lo sviluppo, ha sostituito l’ex-Commissario Neven Mimica nel ruolo di capo negoziatore per la parte UE, ricevendo nella lettera di incarico sottoscritta dal nuovo Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, una specifica esortazione a «concludere i negoziati per un ambizioso accordo post-Cotonou con il Gruppo degli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico».

L’Unione Europea e i Paesi partner hanno raggiunto un’intesa in merito al mantenimento dell’impianto fondamentale dell’accordo e all’aggiornamento dei settori di intervento, con un ruolo di primo piano riservato a democrazia e diritti umani, crescita economica e investimenti, cambiamenti climatici, eliminazione della povertà, pace e sicurezza, migrazione e mobilità, mentre alcune divergenze sono sorte in merito alla cooperazione commerciale. Inoltre, mentre l’Unione Europea si è dichiarata favorevole all’approvazione di un accordo quadro affiancato a tre partenariati regionali su misura per l’Africa, i Caraibi e il Pacifico, i Paesi del Gruppo ACP hanno espresso perplessità in relazione a tale ipotesi.

Attualmente, a fronte dei rallentamenti negoziali in atto tanto in seno all’Unione Europea, quanto tra i Paesi del Gruppo ACP, l’ipotesi più probabile è che si arrivi a un prolungamento nella scadenza delle trattative. Sul fronte europeo, a frenare sono soprattutto i negoziati interni per il futuro Quadro finanziario pluriennale (QFP) (2021-2027), in relazione al quale si prevede che il FES venga incluso all’interno del budget settennale, di fatto riducendo la possibilità che i Paesi del Gruppo ACP possano fare affidamento sui fondi destinati allo sviluppo. Quanto al Gruppo ACP, le maggiori difficoltà sono imputabili al crescente protagonismo dell’Unione Africana (UA), la quale tende a voler assumere un ruolo di guida soprattutto in relazione alla cooperazione commerciale e alla questione migratoria, ambiti ritenuti di fondamentale importanza dai partner africani.

Nonostante lo stallo dei negoziati, mentre ci si chiede se abbia ancora senso un accordo tra l’Unione Europea e il Gruppo ACP, occorre ricordare che l’Unione ha oggi più che mai la necessità di confrontarsi con le grandi sfide contemporanee, anzitutto la lotta al cambiamento climatico e un’adeguata gestione del fenomeno migratorio, in un quadro internazionale sempre più aperto e inclusivo, valorizzando l’ambiziosa partnership con il Gruppo degli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico. Sebbene sia senz’altro necessario un suo aggiornamento – e in tal senso ben venga la proposta di realizzare un “umbrella agreement” accanto a tre partnership regionali ad hoc –, essa è ancora ricca di potenzialità e sarebbe un errore ritenerla ormai superata solo perché, in certa misura, retaggio del passato coloniale europeo. L’opportunità di dialogare in maniera unitaria, peraltro nell’ambito di una partnership tanto ambiziosa e avanzata, è un privilegio che né l’Unione Europea, né il Gruppo degli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico dovrebbero sottovalutare.

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