Sessant’anni dopo i Trattati di Roma: quale Europa?

Lumsa palermo evento
OGIE

«Appartengo a una generazione che vede lUnione Europea come unoccasione nata da uno shock, [] da una grande rottura positiva della storia; una storia in cui tutto procede per gradi, in cui non ci sono ascensori o montascale. Credo che anche adesso ci sia bisogno di uno shock positivo per far sì che si salga [ancora di] un gradino». È quanto affermato dal rettore della Libera Università Maria Ss. Assunta (LUMSA), il professor Francesco Bonini, in occasione della tavola rotonda Sessantanni dopo i Trattati di Roma: quale Europa?, tenutasi, con il patrocinio della Rappresentanza in Italia della Commissione europea, il 27 aprile scorso presso il Dipartimento di Giurisprudenza della LUMSA di Palermo. L’incontro, organizzato dall’Osservatorio Germania-Italia-Europa (OGIE) in collaborazione con la LUMSA e la Rappresentanza in Italia della Konrad-Adenauer-Stiftung (KAS), ha costituito la tappa finale di un percorso che ha visto gli studenti e i ricercatori dell’OGIE impegnati nello studio e nell’analisi di tre delle crisi che hanno messo e continuano tuttora a porre in discussione la costruzione dell’Unione Europea e alcuni dei più importanti traguardi raggiunti dal processo di integrazione – non da ultimo la moneta unica e lo spazio Schengen -. Guidati da professori ed esperti delle tematiche oggetto di approfondimento e coordinati dalla professoressa Tiziana Di Maio e dal professor Marco Evola, i membri dell’Osservatorio hanno tentato di dare il proprio contributo al progetto europeo elaborando una proposta di rilancio dello stesso a sessant’anni dalla firma dei Trattati di Roma.

Incentrata sulla crisi dell’Euro e dell’Eurozona, sulla sfida della migrazione e sulla crisi di rappresentanza politica nel processo di integrazione europea, tale proposta prende le mosse da una serie di considerazioni legate all’attuale contesto economico, politico e sociale, tanto europeo quanto mondiale, e si fonda su premesse e riferimenti giuridici che contribuiscono a conferirle una certa pragmaticità. Il movente ideale proprio dell’Unione e il risoluto rimando ai principi e ai valori comuni che la caratterizzano sin dalla sua nascita e che sono stati criteri guida e capisaldi nel lavoro dei membri dell’OGIE, aleggiano – come rilevato dal professor Giovanni Ferri – in tutto il documento, facendosi particolarmente evidenti tanto nell’invito a implementare una “educazione civica europea” che favorisca non solo il consolidamento dell’identità e del senso di appartenenza all’Unione, ma anche la conoscenza e la comprensione della stessa; quanto nell’ipotesi relativa alla stipula di un nuovo accordo tra UE e Turchia che, facendo perno sulla politica di condizionalità, tenga conto del rispetto dei diritti umani e consenta all’UE di non sconfessare se stessa e i principi su cui si fonda.

Siamo, dunque, in presenza di un’iniziativa partita dal basso, che è riuscita non solo ad «aggregare competenze», saperi ed esperienze differenti – poliedrica è, difatti, la formazione e molteplici i background di provenienza di questi studenti e ricercatori -, ma anche ad «assegnare ai giovani il giusto peso allinterno dellUE», che «può funzionare solo se i cittadini giocano un ruolo di primo piano», come hanno notato rispettivamente il professor Claudio Giannotti e Caroline Kanter, direttrice della KAS-Italia. Dalle pertinenti riflessioni dei relatori intervenuti alla tavola rotonda – il senatore Vannino Chiti, l’ambasciatore Giulio Maria Terzi di Sant’Agata e il professor Ferri – e dagli interventi eloquenti ed esplicativi dei quattro rappresentanti dell’OGIE – Vincenzo Mignano, Felicia Saladino, Riccardo Valle e Adriana Brusca -, è scaturito un dialogo interessante e fruttuoso, che è riuscito a coniugare le differenti prospettive e peculiarità sia del mondo politico, sia di quello accademico. Tanto le relazioni dei giovani dell’Osservatorio, quanto i punti contenuti nella proposta hanno permesso di lambire questioni attualissime e di primo piano.

«Lintroduzione di una politica monetaria comune avrebbe dovuto porsi a coronamento di un processo» più lungo, nel corso del quale le strutture economico-finanziarie, i sistemi giuridici e le istituzioni di Stati differenti tra loro (non solo culturalmente) avrebbero dovuto convergere, consentendo ai Paesi più deboli di allinearsi a quelli più forti. Nel 1992, tuttavia, ragioni di carattere geopolitico e storiche paure determinarono un rovesciamento dell’ordine delle fasi: si decise, quindi, di partire dalla fine, nella convinzione che la creazione di una moneta unica e lo sviluppo di una politica monetaria comune avrebbero quasi automaticamente agito da propulsori e facilitatori di un «percorso europeo di integrazione strutturale». Come ha affermato l’ex ministro degli Affari esteri della Germania e vice-cancelliere nel governo di Gerhard Schröder (1998-2005), Joschka Fischer, nel corso di una intervista: «[] la moneta unica [] doveva essere il vettore dellintegrazione politica». La crisi economica che ha recentemente colpito l’Unione Europea e, in particolar modo, la zona Euro ha ampiamente dimostrato come tale idea, oltremodo ottimistica, fosse invece errata. Seppur non originatasi in Europa, la grande recessione, seguita alla crisi statunitense dei mutui subprime, ha «trovato terreno fertile» e prodotto effetti negativi più duraturi proprio nel Vecchio continente. Quattro i principali fattori alla base di questo stato di cose: (ancora una volta) le profonde divergenze tra i 19 Stati dell’Eurozona; i differenti modelli di welfare; il diverso grado di indebitamento pubblico degli stessi; e soprattutto l’assenza di una politica fiscale comune, non contemplata dai Trattati istitutivi dell’UE, che ha spinto i capi di Stato e di Governo ad agire al di fuori del Diritto dell’UE e a servirsi di accordi internazionali, strumento tipico del diritto internazionale – quali ad esempio il Meccanismo europeo di stabilità (o Fondo salva-Stati) e il Fiscal Compact (Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dellUE) -, strettamente connessi tra loro e sottoposti a forti criteri di condizionalità. Dallo studio approfondito di tale situazione è scaturita la proposta di istituzione di una politica fiscale comune che, imperniandosi sui principi dell’UE – primo fra tutti quello di solidarietà – e tenendo conto delle condizioni finanziarie ed economiche dei singoli Stati, argini le già menzionate divergenze tra gli stessi e, allo stesso tempo, completi l’attuale unione economica e monetaria. L’ipotesi formulata dai membri dell’OGIE, pur non addentrandosi in indicazioni tecniche sulle modalità di implementazione, tocca un tema che è recentemente tornato alla ribalta: ne hanno infatti dibattuto il presidente del Consiglio italiano, Paolo Gentiloni, e il neo-eletto presidente francese, Emmanuel Macron, nel corso della cena di lavoro svoltasi all’Eliseo il 21 maggio scorso; ma la questione era stata rilanciata già qualche giorno prima anche dall’esecutivo guidato da Mariano Rajoy, che, constatata l’incompiutezza dell’unione monetaria, ha auspicato l’accesso a una fase due del progetto: quella di «una unione fiscale in piena regola».

Non stupisce che tale esortazione sia avallata soprattutto da quei Paesi che più hanno sofferto a causa della grande recessione e della crisi dei debiti sovrani che ne è seguita. Meno favorevoli i giudizi da parte di cittadini, esperti e responsabili politici provenienti dagli Stati membri che hanno performato meglio negli ultimi anni, contrari a pagare i debiti contratti da altri, nonché preoccupati che l’integrazione fiscale dell’Eurozona possa innescare un meccanismo di trasferimenti permanenti a senso unico – ovvero dai Paesi virtuosi verso quelli meno virtuosi -. Da qui l’idea che la politica del rigore, dei tagli e del risanamento dei conti pubblici debba necessariamente precedere l’implementazione dell’unione fiscale, escludendo la possibilità – contemplata invece dalla proposta dell’Osservatorio – che quest’ultima possa all’opposto contribuire al raggiungimento della stabilità e della riduzione del debito.

A fare da contorno a questa discussione, alcune considerazioni di carattere economico e politico che hanno portato tutti i relatori a concordare non solo sull’utilità e sulla necessità del progetto europeo, ma anche sul fatto che, nel prossimo futuro, solo se unita l’Europa potrà essere ancora protagonista all’interno di un quadro economico e geopolitico, che ha subito una «rivoluzione copernicana» – così l’ambasciatore Terzi di Sant’Agata -, e che è in continuo e rapido cambiamento. Da una parte, la Trumponomics e la nuova fase delle relazioni USA-UE a seguito dell’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti; dall’altra, la sempre più repentina ascesa della Cina quale potenza economica. Proprio il 26 aprile scorso l’amministrazione Trump ha diffuso il piano dal titolo Riforma fiscale del 2017 per la crescita economica e loccupazione americana. Una politica fiscale espansiva improntata alla teoria della supply-side economics – mirante cioè a favorire la crescita economica mediante la riduzione delle imposte per i redditi da capitale – che contrasta con le politiche fiscali restrittive promosse nel Vecchio continente, dove, al contrario, prevale ancora la logica dell’austerità.

Sul fronte orientale, invece, l’Unione Europea dovrà misurarsi con la via cinese alla globalizzazione: la strategia One Belt One Road (OBOR), basata su enormi investimenti infrastrutturali tesi a collegare via terra e via mare il continente asiatico e quello europeo – e non solo! -, dimostra come la Cina punti nei prossimi 5-10 anni a imporsi a livello globale attraverso una rete di corridoi commerciali tutti diretti a Pechino. Non è questo il luogo per esaminare in maniera approfondita la questione sulla validità o meno della riforma fiscale statunitense, né per immaginare quali conseguenze potrebbero aversi sul Vecchio continente a seguito dell’applicazione di questa stessa politica e del piano di diplomazia economica cinese. Una cosa è certa: l’Europa dovrà decidere se accontentarsi di rimanere una mera espressione geografica, oggetto delle relazioni internazionali e della politica estera di Cina e USA, o se ri-trasformarsi in attore protagonista in grado non solo di determinare il proprio destino, ma anche di influire positivamente a livello valoriale, culturale, sociale, politico, militare ed economico sullo scenario mondiale.

A oggi l’Unione non si è dimostrata in grado di ricoprire questo ruolo di guida e di attore principale sul palcoscenico internazionale; al contrario, è rimasta ai margini, rivelandosi in più di un’occasione incapace di impattare in maniera risolutiva e positiva sulle questioni di rilevanza internazionale e sui conflitti scoppiati in prossimità dei propri confini esterni. Alla base di questo stato di cose vi è la co-esistenza, nel campo della politica estera, di due categorie di interessi: quelli comunitari e quelli particolaristici dei singoli Stati membri, con una netta prevalenza di questi ultimi sui primi, data anche la composizione domestica di due delle istituzioni preposte all’orientamento e all’elaborazione dell’azione esterna dell’Unione stessa, ovvero il Consiglio europeo – formato dai capi di Stato o di Governo degli Stati membri – e il Consiglio dell’UE – istituzione che riunisce i rappresentanti dei singoli Paesi dell’Unione a livello ministeriale. La difficoltà nel trovare un giusto equilibrio tra obiettivi statali e comunitari si rileva soprattutto in sede decisionale. I Trattati stabiliscono difatti che, nella maggior parte dei casi, le decisioni vengano assunte all’unanimità; una disposizione che, se, da un lato, ha il pregio di assicurare la completa approvazione dell’azione esterna dell’Unione da parte degli Stati, dall’altro tende a generare impasse nel momento in cui questi ultimi non riescono a raggiungere una posizione condivisa.

Nonostante, poi, il Trattato di Lisbona abbia introdotto la carica dell’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per la Politica Estera e di Sicurezza Comune quale organo con funzioni di guida, elaborazione e attuazione di detta politica, tale figura non è assimilabile a un ministro degli Esteri dell’Unione dotato di effettiva autonomia rispetto agli Stati membri, restii a cedere sovranità in un ambito così importante. La Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) resta quindi a tutti gli effetti una forma di cooperazione intergovernativa, nel cui processo decisionale pesano interessi nazionali che non solo rallentano l’azione esterna dell’Unione – rendendola spesso inconcludente e inefficace -, ma tendono anche ad allontanare l’obiettivo della convergenza delle politiche estere dei singoli Stati membri verso «un unico paradigma europeo», così come postulato nella «disposizione programmatica» individuata dal secondo comma dell’articolo 24 del Trattato sull’Unione Europea (TUE).

L’esposizione e la disamina, nel corso della conferenza, di queste criticità ha permesso agli studenti e ai ricercatori dell’OGIE di avanzare due possibili proposte di riforma della PESC – non contenute tuttavia nella proposta finale dell’OGIE -, favorendo al contempo anche uno stimolante scambio di pareri tra i relatori intervenuti e tra questi e i membri dell’Osservatorio. Da una parte, al fine di rendere più fluidi i processi decisionali in seno alle istituzioni dell’Unione ed evitare, soprattutto nei casi di emergenza e di rilevanza internazionale, le summenzionate situazioni di stallo e di inazione, è stata prospettata l’ipotesi di adottare, in casi specifici, provvedimenti a maggioranza qualificata invece che all’unanimità (idea peraltro sposata anche dal tedesco Manfred Weber, capogruppo del Partito Popolare Europeo all’Europarlamento); dall’altra, si è proposto un ampliamento delle competenze dell’Alto Rappresentante, così da riconoscergli quell’«autonomia effettiva» cui si accennava in precedenza, che gli consentirebbe di dare espressione agli interessi comunitari, che, come si è visto, sono sovente posti in secondo piano.

Di notevole interesse la suggestione avanzata, nel corso del dibattito, dal senatore Chiti e sostenuta dall’ambasciatore Terzi di Sant’Agata di vedere nel seggio francese al Consiglio di sicurezza dell’ONU un “seggio europeo”, che, tuttavia, dovrebbe attuarsi mediante «una delega di funzioni e non di sovranità, per evitare una condizione neo-auto-colonialista e ribadire luguaglianza tra tutti gli Stati dellUE» (Giulio Maria Terzi di Sant’Agata). Una proposta che rimanda direttamente al già menzionato concetto dell’«unico paradigma europeo» e, più nello specifico, allo strumento della posizione comune, esplicitato negli articoli 29 e 34 del TUE. Sulla base di queste due disposizioni, gli Stati membri hanno l’obbligo, in seno alle organizzazioni internazionali e, più in generale, nell’attuazione della politica estera statale, «di sostenere attivamente e senza riserve la politica estera dellUnione». Un accenno è stato fatto, infine, anche a un altro «dei limiti di cui lUnione soffre», ovvero la questione dell’assenza di un esercito europeo. Come rilevato dall’ambasciatore Terzi di Sant’Agata, un prototipo integrato e in nuce di contingente militare comune esiste – seppur solo sulla carta – dal 1999: si tratta dei battlegroups, che rappresentano, tuttavia, una forma di intervento militare limitato nel tempo e non stabile, che viene dispiegato per situazioni di crisi ad hoc; formato da gruppi di coalizioni di Stati Membri, sembra essere ben lontano dal modello di esercito europeo previsto dai Trattati e da una difesa che possa definirsi effettivamente comune.

Strettamente connesso ai fallimenti dell’UE nel campo della politica estera è il tema della crisi migratoria che, da qualche anno a questa parte, l’UE e i suoi Stati membri si trovano a dover fronteggiare. «È necessario riaprirsi anche al Mediterraneo», questo il monito che il rettore Bonini, citando Henri Pirenne e la sua Storia dEuropa, ha rivolto ai giovani presenti in sala e all’Unione Europea. Diversi i fattori e gli scompensi alla base degli ingenti flussi migratori degli ultimi anni: la crescita demografica verificatasi nelle aree vicine ai confini esterni e comuni dell’Unione; i cambiamenti climatici che generano spostamenti intra- e interstatali; le tensioni e le instabilità a livello politico, molto spesso ignorate o sottovalutate, nonché le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza sia a livello di classi sociali che tra Paesi. Non è tuttavia concepibile – hanno fatto notare i giovani dell’OGIE – che, in ottemperanza al Regolamento di Dublino, sia il solo «Stato membro che ha svolto il ruolo maggiore in relazione allingresso del richiedente» (solitamente gli Stati di frontiera come la Grecia e l’Italia) a farsi carico dell’accoglienza di coloro che «stanno dando un volto umano alla globalizzazione» (Leoluca Orlando, sindaco di Palermo).

Un pensiero che è stato a più riprese palesato anche da alcuni rappresentanti delle Istituzioni dell’Unione, primo fra tutti il capo della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, che nel corso di un intervento tenuto al principio di maggio a Firenze ha asserito: «[] dobbiamo essere più solidali sia con l’Italia sia con la Grecia che non sono responsabili della loro posizione geografica». Una solidarietà che deve concretarsi sia nel più ampio contesto europeo, sia sul piano statale interno e, quindi, a livello di Regioni e Comuni, ha rimarcato il senatore Chiti, il quale ha in seguito espresso l’urgenza tutta italiana di dotarsi di meccanismi che non siano solo emergenziali, ma che riconoscano e garantiscano il rispetto della dignità umana e dei diritti fondamentali della persona; meccanismi in grado di favorire l’integrazione attraverso la formazione e il lavoro, che dia ai migranti la possibilità di partecipare attivamente alla vita e alle attività del territorio ospitante. Ma ospitalità e comunità più inclusive non sono sufficienti: dove e qualora sia possibile, infatti, bisognerebbe impegnarsi per promuovere nei territori d’origine – in particolare, in quelli in cui vi sono disparità evidenti nelle condizioni di vita – un progresso e una crescita tali da eliminare le cause a monte dei flussi migratori. Ecco perché il documento prodotto dagli studenti e dai ricercatori dell’Osservatorio propone anche il «rafforzamento della politica estera dellUnione e una nuova strutturazione della politica di cooperazione allo sviluppo» che, attraverso iniziative imprenditoriali, si preoccupi di stimolare le capacità produttive e creative delle economie locali.

«LUE è un gigante economico, un nano politico e una larva militare». Questa frase, attribuita all’ex segretario di Stato USA, Henry Kissinger, e citata dal senatore Chiti nel corso della tavola rotonda, ci porta all’ultimo dei tre pilastri della proposta, quello relativo alla crisi di leadership e rappresentanza politica. È indubbio che l’UE sia attualmente il più grande mercato unico del mondo, che rientri nel novero delle potenze commerciali e che l’euro si posizioni immediatamente dopo il dollaro come valuta a livello globale. Si tratta di constatazioni e di dati che vengono continuamente menzionati ed enfatizzati in occasione di conferenze e incontri cui partecipano esperti e analisti del campo, o persino gli stessi rappresentanti dell’Unione. In effetti, questa è anche la percezione che dell’UE si ha dall’esterno: una grande potenza economica che, tuttavia, non riesce a imporsi da un punto di vista politico; un colosso economico che non è in grado di entusiasmare e coinvolgere i suoi cittadini. In che modo fronteggiare questa disaffezione nei confronti dell’UE e come ridurre la distanza attuale tra rappresentanti e rappresentati? Queste le domande cui i membri dell’OGIE hanno cercato di rispondere nella loro analisi, che ha individuato nell’implementazione di una “educazione civica europea”, nella convergenza verso «un unico paradigma normativo» delle diverse disposizioni nazionali in materia di elezioni del Parlamento europeo e nella conseguente formazione di partiti politici europei transnazionali le possibili soluzioni a queste problematiche.

In particolare, con riferimento al secondo dei tre punti appena citati, è emerso che attualmente le elezioni per l’Europarlamento si svolgono essenzialmente sulla base di norme nazionali – spesso notevolmente divergenti tra loro -, cui si affiancano solo pochi principi dettati a livello comunitario. Ne deriva un sistema ancora troppo improntato ad una logica di appartenenza nazionale che ostacola il costituirsi di un’identità e di una coscienza politica comuni. La proposta dell’Osservatorio, prospettando la mera attuazione di quanto già previsto in questa materia dai Trattati e, in particolare, dall’articolo 223 del Trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE), invoca  quindi l’elaborazione di una procedura elettorale uniforme che miri a favorire la creazione di partiti politici europei transnazionali cui il paragrafo 4 dell’articolo 10 del TUE attribuisce il ruolo di strumenti per lo sviluppo di una coscienza politica europea. Una suggestione, questa, accolta con particolare favore dal senatore Chiti, che, facendo riferimento a una precedente proposta italiana presentata già a Bratislava da Sandro Gozi, sottosegretario agli Affari europei, ha rilanciato: «I 73 seggi lasciati liberi a seguito della Brexit siano liste transnazionali, che esprimano candidati di vari Paesi e il cui capolista sia il candidato delle famiglie europee alla presidenza della Commissione europea, cosicché chi vince le elezioni possa esprimere, al contempo, un elemento di governo».

Le proposte dei giovani membri dell’Osservatorio hanno riscontrato l’apprezzamento da parte degli intervenuti, che ne hanno sottolineato la concretezza mista a lungimiranza e ottimismo. L’ambasciatore Terzi di Sant’Agata, in particolare, parafrasando la celebre frase «Stay hungry, stay foolish», pronunciata da Steve Jobs nel suo discorso all’Università di Stanford, ha asserito «trovo che nelle vostre proposte e nei vostri discorsi abbiate dimostrato di essere molto hungry [], ma non siete stati assolutamente foolish, anzi siete stati molto wise». Impegno, capacità di discernimento e desiderio di conoscere, imparare e «andare oltre lostacolo» che verranno ripagati il 21 giugno prossimo in occasione di una audizione presso la XIV Commissione permanente (Politiche dell’UE) del Senato della Repubblica, cui interverranno sei rappresentanti dell’OGIE. Un’opportunità offerta a questi giovani dal senatore Chiti, perché, come ha ricordato il prof. Giannotti, «è compito delle istituzioni e di noi adulti creare le occasioni perché il seme del cambiamento culturale possa crescere e germogliare». Un cambiamento che, spostando il focus dalla sola dimensione economica e monetaria e riportandolo sui «reali valori istitutivi dellUE», possa portare a un nuovo shock positivo e, allontanando lo spettro della disgregazione, sia in grado di far progredire la storia del processo di integrazione europeo di un ulteriore gradino. Questo è quello che la nostra generazione, che noi, membri dell’Osservatorio Germania-Italia-Europa, ci auguriamo.

Proposta OGIE.pdf

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