Workshop: Perché non possiamo non dirci europei (I)

Ragazzi dietro una scrivania che parlano

Il 5 marzo 2019, presso l’Aula 5 della sede LUMSA di Piazza delle Vaschette, si è svolto il primo dei tre workshop del ciclo Perché non possiamo non dirci europei. Attraverso questa serie di incontri – organizzati in collaborazione con la Libera Università Maria Ss. Assunta (LUMSA) e la Rappresentanza in Italia della Konrad-Adenauer-Stiftung (KAS) – l’Osservatorio Germania-Italia-Europa (OGIE) si propone di ragionare sul significato e sulle motivazioni storiche e culturali tanto del processo di integrazione, quanto e soprattutto del nostro essere europei; il tutto nel tentativo di comprendere le cause poste alla base della crisi potenzialmente disgregatrice che l’Unione sta vivendo e rilanciare i temi dell’integrazione, anche in vista delle elezioni europee che vedranno coinvolti in prima persona i cittadini dei 27 Stati membri dell’UE.

Perché non possiamo non dirci europei: una formula mutuata dal filosofo Benedetto Croce e che, per noi, rimanda direttamente all’idea di identità europea – idea ben presente nella mente (e probabilmente anche nel cuore) degli iniziatori del progetto di Europa unita, ma, forse, meno chiara oggigiorno sia per i decisori politici, sia per i cittadini europei.

Ed è proprio da questa espressione – al contempo un’affermazione e un interrogativo – che è partita la riflessione delle due ospiti intervenute all’evento: il direttore della Rivista di Studi politici internazionali e professore di Storia e politica dell’integrazione europea, Maria Grazia Melchionni, e Antonia Carparelli, consigliere economico presso la Rappresentanza in Italia della Commissione europea e docente di Governance and Policies of the European Union presso la LUMSA.

«È importante comprendere che un’identità europea va qualificata non come un assoluto, ma come qualcosa che è in continuo divenire», ha osservato la professoressa Carparelli. Ambedue le relatrici hanno infatti tenuto a precisare come quello di identità sia un concetto pluriforme e relativo nel tempo e nello spazio: ognuno di noi possiede (almeno) un’identità locale, una nazionale e una europea; ciascuna di queste dimensioni “va in scena” al momento e nel luogo opportuni, senza che questo ci disturbi, anzi, consentendoci di far fronte alle diverse situazioni che caratterizzano la nostra vita. Si comprende, dunque, che dare al concetto di identità un’interpretazione monodimensionale e non considerare le persone come «diversamente differenti» non solo ha notevoli ripercussioni in termini di ricchezza (intesa in senso lato e non solo economico), ma genera anche rischi e conflitti – questa la tesi sostenuta dall’economista e filosofo indiano Amartya K. Sen nel suo volume Identità e violenza.

Come legare, tuttavia, questa necessaria e costitutiva diversità, questo divenire continuo nel tempo e nello spazio proprio dell’identità, a tutto il portato di valori e principi – immutabili ed essenzialmente stabili, ma, spesso e volentieri, interpretati e intesi in maniera diversa – che l’essere europei, o, meglio, Stati membri e cittadini dell’UE comporta? Forse la risposta a questa domanda sta nel recupero del concetto dicomunità” – probabilmente dimenticato o semplicemente accantonato nel momento in cui a esso si è deciso di sostituire quello meravigliosamente ambiguo di “unione”. Dunque, identità intesa come l’essere e, soprattutto, il sentirsi parti integranti e attive di un’entità che condivide valori e obiettivi e che, per raggiungere questi ultimi, sviluppa strumenti e soluzioni comuni. Un’idea – ha evidenziato la professoressa Carparelli – sovrapponibile a quella di capitale sociale così come interpretato dal sociologo R. D. Putnam, ossia ricchezza di relazioni, valori, esperienze che consentono di risolvere problemi collettivi, favorendo lo sviluppo e del singolo e dei paesi. In altri termini, bisogna riscoprire quei tratti, quelle ragioni che ci accomunano e far sì che le indiscutibili diversità proprie delle culture nazionali non tornino a contrapporsi come accaduto in passato, ma piuttosto si compongano in una rinnovata armonia.

A fare da base e, allo stesso tempo, da filo conduttore degli interventi la constatazione relativa a un quadro internazionale nel quale attori geopolitici ed economici vecchi e nuovi stanno ridefinendo i propri spazi d’azione, dando vita a un sistema complesso nel quale regnano imprevedibilità e incertezza e in cui forze di segno opposto – centripete e centrifughe, di frammentazione e integrazionesi scontrano incessantemente. In uno scenario di questo tipo, si fa strada il timore «che, tra tanti poli che vanno formandosi, la zona amorfa [in questo caso l’UE, ndr.] diventi quella in cui si sfogano i contrasti tra gli altri», così la professoressa Melchionni.

Un contesto, quello poc’anzi descritto, che, se comparato a quello che nel secondo dopoguerra fece scoccare la scintilla dell’integrazione europea, risulta ostile e avverso; allora, infatti, si verificarono una serie di condizioni endogene ed esogene favorevoli: la presa d’atto della debolezza e del logoramento politico, economico, militare e persino morale – e, conseguentemente, dell’irrilevanza – dei singoli Stati del Vecchio continente a fronte della comparsa delle due super-potenze, da una parte; l’interesse statunitense nei riguardi dell’Europa – non più considerata una mera espressione geografica, ma componente essenziale del grand design rooseveltiano -, nonché il sostegno dato dagli USA all’idea di unità europea (soprattutto in ragione del nascente bipolarismo), dall’altra.

Ora quelle circostanze e quei presupposti o risultano del tutto assenti o non sono più percepiti come impellenti e reali. Già da diverso tempo gli USA stanno rivolgendo la loro attenzione all’area del Pacifico, di contro a un graduale ma costante disimpegno nel Vecchio continente; pare stia venendo meno anche la stessa propensione statunitense alla cooperazione multilaterale, sempre più spesso sostituita da accordi bilaterali e alleanze one to one – un atteggiamento analogo a quello che la Cina sta utilizzando sia in Europa sia in Africa in vista della realizzazione della Belt and Road Initiative – BRI. Riuscirà l’UE a trarre frutti positivi e nuove opportunità da questo disinteresse? Saprà uscire dalla condizione di subalternità in cui attualmente si trova nel campo della Difesa e della Politica estera (e non solo) emancipandosi dall’ombrello statunitense e aprendosi a una partnership strategica anche con la vicina Russia o dovrà fare i conti con le inquietudini dei Paesi dell’Europa centro-orientale e con l’inclinazione di questi ultimi a vedere la propria sicurezza non nell’UE, bensì negli USA?

Allo stesso tempo, il progetto europeo soffre della mancanza di leader lungimiranti e grandi menti in grado di cogliere ciò che fu chiaro agli «statisti carismatici» e alle «personalità creatrici» che all’indomani del secondo conflitto mondiale decisero di attuare l’utopia degli Stati Uniti d’Europa, ossia l’impotenza degli Stati ad affrontare da soli sfide che travalicavano i loro confini e che assumevano dimensioni internazionali. Di sicuro le questioni cui far fronte oggi sono diverse in termini di portata, rapidità e impatto rispetto a quelle di settant’anni fa. Ciononostante, la risposta che molti rappresentanti politici tendono a dare non è improntata a un’integrazione sempre più stretta, né tantomeno a una genuina Realpolitik, quanto piuttosto a un preoccupante nazionalismo e a un crescente protezionismo; a un ritenere che lo Stato-nazione – dato per moribondo in più di un’occasione, eppure ancora presente – possa riuscire in solitaria nel mondo iper-complesso e senza baricentro della global age.

Ciò che deve preoccupare maggiormente, però, è che queste stesse convinzioni siano condivise da quelle porzioni dell’opinione pubblica che ritengono di essere state lasciate indietro. «Non c’è niente di più velenoso del senso identitario che nasce dal rancore e dal risentimento di una dignità frustrata», ha affermato la professoressa Carparelli richiamandosi al nuovo volume di F. Fukuyama dal titolo Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi. Un’involuzione identitaria in grado di generare ostilità e intolleranza nei confronti del “diverso” e, fatto ancor più drammatico, tra europei.

A cosa sia dovuto questo sentiment col segno meno è presto detto: l’UE è percepita come un’entità che fa integrazione negativa, che apre i mercati senza costruire coesione, cioè senza prevedere meccanismi di compensazione e contrappesi sociali in grado di assorbire le distorsioni prodotte dalla concorrenza – strumenti contemplati, invece, nel primo progetto di Comunità europea. Gli effetti negativi di questo liberismo ingeneroso e poco accorto si sono potuti sperimentare con l’avanzare della globalizzazione, soprattutto nei decenni successivi alla caduta del Muro di Berlino: la competizione proveniente tanto dalla Cina, quanto dai Paesi del Grande allargamento – che partivano da standard più bassi – ha determinato delocalizzazioni, dumping sociale e ambientale e, più in generale, fenomeni di concorrenza sleale con conseguente aumento dei tassi di disoccupazione di alcune aree, nonché discriminazioni e disparità di trattamento tra i lavoratori dell’UE. Forse la sindrome francese dell’“idraulico polacco”, che portò al fallimento della Costituzione per l’Europa, non era poi così infondata?

L’Unione è indietro sia nel sociale – dovrebbe attribuire un peso maggiore alle valutazioni di impatto sociale, quando prende decisioni di carattere economico e politico -, sia sul piano della competitività a livello internazionale: le esportazioni, seppur presenti, sono orientate verso mercati di nicchia e la leadership è concentrata in settori che vanno ridimensionandosi. Ne consegue una marginalità e uno schiacciamento dell’economia europea; è questo il prezzo da pagare per aver difeso gelosamente le economie e i campioni nazionali, invece di avvalersi delle economie di scala.  L’Europa nel suo insieme dovrebbe sforzarsi di essere presente in quei settori – come la robotica, la chimica avanzata, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, solo per citarne alcuni – per i quali la domanda è in espansione. Solo così potrà uscire da questa condizione di irrilevanza e tornare ad assicurare alle future generazioni benessere, stabilità e pace, come previsto nel progetto originario.

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