Workshop: Perché non possiamo non dirci europei (III)

Ragazzi dietro una scrivania che parlano

Perché non possiamo non dirci europei, questo il titolo dei tre workshop organizzati dall’Osservatorio Germania Italia Europa (OGIE) rispettivamente il 5 marzo, 26 marzo e 9 aprile 2019 presso la Libera Università Maria Ss. Assunta (LUMSA) di Roma. L’ultimo incontro di questo ciclo di eventi sul tema dell’identità europea – moderato dall’osservatore Cesare Bellomo – ha visto protagonisti, in qualità di relatori, S.E. l’Ambasciatore Roberto Nigido e il Professor Matthew Fforde.

Il progetto di quest’anno Perché non possiamo non dirci europei vede i membri dell’Osservatorio impegnati nell’analisi del rapporto intercorrente tra l’Unione europea e otto Stati Membri dell’Unione, selezionati sulla base dei seguenti criteri: Stati fondatori CEE, Stati di seconda adesione e Stati del grande allargamento. In particolare, relativamente al primo gruppo vengono presi in considerazione Italia, Germania e Francia, relativamente al secondo Regno Unito e Spagna e relativamente al terzo Ungheria, Polonia e Romania. Per ciascuno Stato vengono analizzate le ragioni della fondazione o dell’adesione all’Unione; le ragioni che hanno portato i cittadini di tali Paesi ad essere soddisfatti o insoddisfatti dell’appartenenza all’Unione – dunque le ragioni dell’euro-entusiasmo o dell’euro-scetticismo – e, infine, come questi sentimenti si riflettano sul piano politico, con il conseguente supporto a partiti più o meno europeisti.

L’incontro tenutosi il 9 aprile ha consentito di riflettere, attraverso i preziosi interventi dei due esperti, sulle questioni più attuali e controverse relative all’odierno assetto dell’Unione. In particolare, la discussione si è concentrata su cinque Stati Membri: Regno Unito, Spagna, Ungheria, Polonia e Romania.

La domanda preliminare posta a entrambi i relatori può suonare banale, ma cela in sé gran parte dei problemi del progetto europeista contemporaneo (e non solo): perché non possiamo non dirci europei? Il Professor Fforde e l’Ambasciatore Nigido concordano sul fatto che nascere in Europa comporti l’essere europei, ma non necessariamente l’essere europeisti. In particolare, il Professor Fforde suggerisce cautela rispetto al tema della identity policy, anche alla luce dello spostamento dell’opinione pubblica che ha avuto luogo in maniera sempre più evidente a partire dal 2015. L’Ambasciatore Nigido, al contrario, afferma che tra gli europei sussista una condivisione di valori morali, culturali e storici che ha origini antiche e non è rintracciabile rispetto ad altre culture quali, ad esempio, quelle asiatiche o quella americana.

Il dibattito si è poi concentrato sul caso Brexit e sulle prospettive del Regno Unito al di fuori dell’Unione. In particolare, secondo il Professor Fforde, ciò che è emerso nel referendum del 2016 è la netta contrapposizione tra conservatorismo liberale (pro-Brexit) e liberalismo sociale (anti-Brexit). Inoltre, la scelta di indire un referendum su un tema così divisivo come l’appartenenza o meno all’Unione, ha comportato una frattura non facilmente sanabile in seno alla società britannica. Il Regno Unito ha un sistema costituzionale particolare – caratterizzato dall’assenza di una Costituzione scritta e di una Corte costituzionale – perciò, a partire dal 1972, è stato possibile indire una serie di referendum su temi di rilevanza costituzionale. Tuttavia, l’istituto referendario presenta dei limiti relativi ad aspetti di grande importanza: anzitutto, la natura del quesito, ossia quale domanda sia opportuno porre; l’elettorato attivo, cioè chi ha diritto a votare in una consultazione referendaria, tenendo presente che sia nel 2016 (referendum sulla Brexit), sia nel 2014 (referendum sull’indipendenza scozzese), rispettivamente i britannici residenti nell’Unione e gli scozzesi residenti al di fuori della Scozia non hanno potuto prendere parte alle consultazioni referendarie; la vincolatività del referendum, considerando che da più parti si chiede l’indizione di un nuovo referendum per cercare di ribaltare il risultato del primo. In virtù di ciò, a partire dal 2017 ha avuto inizio una campagna per delegittimare il risultato, affermando che gli elettori non fossero stati correttamente informati o che non avessero compreso appieno la portata di un voto a favore del leave. Tuttavia, dare adito a certe posizioni è pericoloso per la democrazia e per la tenuta dello stato di diritto. Il timore è che ciò che è avvenuto nel Regno Unito non sia in realtà che un’anticipazione di quello che potrebbe accadere di qui ai prossimi anni in Francia, Germania o Italia, dove ci sono ampie sacche di euroscetticismo. L’Ambasciatore Nigido, proseguendo il ragionamento del Professor Fforde, sottolinea come la complessità dei negoziati per l’uscita del Regno Unito dall’Unione sia pari solo alla complessità dei negoziati per l’entrata. I britannici non hanno condiviso la drammatica storia del Continente, non sono mai stati invasi da potenze straniere; l’Unione non è fatta per gli inglesi i quali, del resto, si sono sempre ben guardati dal prendere parte alle iniziative più divisive: proprio per questo, la Brexit deve essere vista dai Paesi Membri come un’opportunità di avanzamento nel processo di integrazione europea, costantemente ostacolato dal Regno Unito.

Anche in Spagna, desta curiosità la progressiva ascesa del partito di estrema destra Vox con l’11% – crescita, per quanto non travolgente, confermata dai risultati delle recenti elezioni – una preoccupante tendenza che si può rintracciare in molti altri Paesi dell’Unione, quali Germania e Olanda, solo per citarne alcuni. Il Professor Fforde – pur augurandosi una vittoria delle forze europeiste – sottolinea come i partiti tradizionali non riescano più a intercettare i reali bisogni e timori dei cittadini, i quali esprimono il proprio voto a favore di forze estremiste, dal carattere antieuropeista e nazionalista, che promettono soluzioni rapide e radicali. L’Ambasciatore Nigido evidenzia il ruolo di tre elementi nella perdita di fiducia nelle istituzioni europee da parte dei cittadini. Anzitutto, il radicalismo dal carattere utopico dei federalisti europei, i quali hanno sostenuto posizioni per le quali né gli Stati né i cittadini sono pronti; inoltre, l’incapacità dell’Unione di gestire le crisi a causa di meccanismi lenti e, in ultima analisi, volti a tutelare la sovranità nazionale; infine, la potente propaganda russa e, ultimamente, americana. I cittadini europei, stanchi delle risposte inadeguate fornite dalle istituzioni comunitarie rispetto alle gravi crisi che si sono abbattute – e che continuano ad abbattersi sul Continente – si sono rivolti nuovamente a realtà nazionali, se non addirittura locali, apparentemente in grado di risolvere in maniera rapida e concreta questioni percepite come problematiche o minacciose. L’Ambasciatore sottolinea come, per evitare che l’Unione perisca sotto i colpi di questo circolo vizioso, sia necessario un netto rafforzamento delle quattro unioni (politica, sociale, economico-monetaria e ambientale), elencate dal premier spagnolo Pedro Sanchez nel corso del suo intervento al Parlamento europeo il 15 gennaio scorso.

Un particolare interesse ha suscitato il dibattito relativo a due tra i quattro Paesi del Gruppo di Visegrád, Ungheria e Polonia, culle del nazionalismo e del sovranismo contemporanei, nonché oggetto di studio dell’attuale progetto dell’Osservatorio. Qui – a parere del Professor Fforde – emerge con particolare evidenza l’incompatibilità tra sovranità nazionale e sovranità europea: attorno a tale dicotomia, stanno emergendo fortissime tensioni e con buona probabilità il dualismo locale-globale sarà il cleavage del futuro. In Polonia questo non dipende solo dalla sottomissione prima al nazismo e poi all’Unione Sovietica, ma è anzitutto una questione culturale legata alla fortissima presenza cattolica: ci si chiede che tipo di progetto culturale verrà portato avanti da Bruxelles, se laico o cristiano. Per questo, occorre ascoltare le preoccupazioni di Polonia e Ungheria, poiché esse pongono in luce la problematica del laicismo e del cristianesimo e, in ultima istanza, dell’identità europea.

Un caso particolare è quello della Romania, Paese dalle solide radici latine e fortemente europeista nonché, dal 1° gennaio 2019, titolare della presidenza del Consiglio europeo. Alla domanda se sia opportuno o meno per la Romania entrare nell’Euro, l’Ambasciatore Nigido risponde in maniera netta riportando un aneddoto: alla vigilia della Conferenza di Roma per l’istituzione dell’Unione Economica e Monetaria, un editoriale sul Financial Times sosteneva che fosse preferibile avere un posto a sedere nella BCE piuttosto che nessuno nella Bundesbank, allora vero colosso finanziario. Rapportando tale aneddoto al caso romeno, l’Ambasciatore afferma – sostenendo l’opportunità dell’adesione all’Euro per la Romania – che sia meglio avere un posto nelle istituzioni europee piuttosto che nessuno a Mosca o a Pechino. Tuttavia, nell’affermare ciò ricorda di non essere precipitosi, poiché l’adozione di una moneta comune comporta cambiamenti rilevanti nella politica economica di uno Stato e, a volte, sacrifici da parte dei cittadini: occorre che non solo il sistema-Paese, ma anche la cittadinanza, siano pronti a un cambio di passo.

La panoramica offerta dall’incontro del 9 aprile è stata senz’altro ricca di spunti per proseguire la nostra riflessione sul rapporto tra l’Unione e i suoi Stati membri. Le classi dirigenti del continente, assieme alle istituzioni europee, devono finalmente convenire su cosa sia europeo e su cosa comporti questa appartenenza: indubbiamente sacrifici, poiché essi sono richiesti in ogni contesto relazionale, ma altrettanto certamente vantaggi, derivanti anzitutto dalla possibilità di poter rivestire un ruolo centrale nel contesto internazionale, in virtù dei valori comuni di cui l’Unione è portatrice.

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