Strage di Capaci 23/05/1992

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«Il nostro maggior risultato consiste proprio in questo: avere privato la mafia della sua aura di impunità e di invincibilità, aver dimostrato che la mafia può essere trascinata in tribunale e che i suoi capi possono essere condannati.» 

– Giovanni Falcone

Era il 23 maggio del 1992, quella primavera si presentava simile alle precedenti, ma gli eventi accaduti quel giorno sarebbero stati capaci di scuotere gli animi, non solo degli abitanti di quell’Isola, la Sicilia – che convivevano oramai da lungo tempo con la mafia – ma di tutta l’Italia.

Sulla A29, che collega Palermo a Trapani, si consumava una tragedia, passata alla storia come “Strage di Capaci”, nella quale persero la vita cinque persone e rimasero feriti ventitré innocenti, tra civili e militari presenti nell’area dell’attentato. Da sud a nord, il Paese era devastato dalla perdita di un grande uomo e illustre Magistrato, Giovanni Falcone, la cui vita si era principalmente concentrata nel tentativo di sradicare quell’infido fardello che attanagliava l’Italia da troppi anni: la mafia.

Ma chi era Giovanni Falcone? All’anniversario della sua morte, lo ricordiamo per la sua straordinaria tenacia e l’esemplare lotta alla mafia, condotta dagli Uffici della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo.

Chi era Giovanni Falcone?

Giovanni Falcone nasce a Palermo il 18 maggio del 1939. Di famiglia benestante, apprende sin dalla giovane età il senso del dovere e del sacrificio, ritenuti da lui stesso come l’essenza della dignità umana[1]. Appassionato di sport, filosofia e storia, con uno spirito critico della realtà e un approccio improntato al dialogo, conclude i suoi studi universitari con una laurea in Giurisprudenza. Nel 1964 accede alla Magistratura e ben presto comprende che, per poter avere la meglio su Cosa Nostra, avrebbe dovuto lavorare incessantemente e avere mente e cuore totalmente devoti al perseguimento di questo obiettivo.

Trasferitosi a Palermo, dove peraltro avrà modo di lavorare a stretto contatto con il suo amico d’infanzia, Paolo Borsellino, darà avvio a una vera e propria rivoluzione delle tecniche e dei metodi di indagine dei reati associativi, abbattendo finalmente quel muro di omertà e quella garanzia di intangibilità di cui, per lunghi anni, le organizzazioni mafiose avevano continuato a beneficiare.

Contesto socio-politico

Nel Capoluogo siciliano, tra la fine del 1981 e gli inizi del 1982, si registrava una vittima ogni tre giorni[2]. Le numerose faide tra cosche mafiose, le intimidazioni e le violenze che subivano coloro che non si piegavano al sistema di Cosa Nostra, avevano trasformato la Sicilia in una terra insanguinata. In questo contesto, dunque, si rendeva necessario, per coloro che vivevano e lavoravano nel rispetto della legge, dello Stato e delle sue istituzioni, invertire la rotta, per dare vita ad una cultura imperniata sul rispetto della legalità.

Il tradizionale approccio delle Forze dell’Ordine, degli investigatori e della stessa Magistratura si stava rivelando insufficiente al fine di incriminare, con prove inconfutabili, le condotte di tutti i partecipanti alle associazioni mafiose operanti sul territorio. Inoltre, la crescita rallentata delle Regioni del Sud Italia, che perdurava nonostante alcuni interventi da parte del Governo centrale – come le Casse del Mezzogiorno, tra gli anni Cinquanta e Sessanta – non era stata all’altezza di stimolare uno sviluppo di tipo endogeno[3].

Questo divario tra Meridione e Settentrione, dunque, ha contribuito a creare il terreno fertile, per l’espansione e la crescita di un’organizzazione criminale, parallela allo Stato, che aveva, de facto, sostituito il ruolo delle Istituzioni. Si assisteva, così, al consolidamento di Cosa Nostra, un’organizzazione mafiosa strutturata capillarmente, nota per le sue caratteristiche peculiari, che la differenziavano da ogni altra associazione a delinquere. 

Maxiprocesso

L’impegno di maggior rilievo nella carriera di Giovanni Falcone è rappresentato dal noto maxiprocesso, così chiamato per l’alto numero degli imputati e per l’ingente attività investigativa. I 460 imputati in primo grado, accusati di essere affiliati, a vario titolo, a Cosa Nostra, sono stati quasi tutti condannati per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, nonché per la commissione di altri delitti, quali l’omicidio, l’estorsione, le lesioni, le minacce e il traffico di stupefacenti. La maggior parte dei procedimenti in questione si è definito in Cassazione, con la conferma delle condanne irrogate dalle Corti locali. Il maxiprocesso, che si è svolto tra il 10 febbraio 1986 e il 30 gennaio 1992, segnerà una svolta importante per l’attività investigativa di cui si è avvalso il pool antimafia, istituito e coordinato da Falcone, ed è noto per i suoi risultati straordinari in termini di lotta alla criminalità organizzata[4].Tale evento non soltanto finì per lanciare un segno chiaro e deciso nei confronti di Cosa Nostra, ma permise a Falcone di portare alla luce le dinamiche interne all’associazione mafiosa, che sussistevano tra i cosiddetti “Uomini d’Onore”.

I codici verbali della mafia siciliana

Falcone, in un’intervista rilasciata nel 1991 alla giornalista francese Marcelle Padovani esporrà pubblicamente i meccanismi e le articolazioni del metodo funzionale di Cosa Nostra, illustrandone il potere, il perverso sistema di valori, le modalità di reclutamento dei nuovi affiliati, le attività illecite, i canali di accumulo e di riciclaggio del denaro, le strategie di intimidazione e parte dei rapporti con il mondo politico[5].

Ricostruito questo quadro probatorio, grazie anche – soprattutto – alle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia per eccellenza, il “pentito” Tommaso Buscetta, l’operato di Falcone viene tutt’oggi ritenuto da molti come un testamento intellettuale.

Nel saggio della Padovani, «Cose di Cosa Nostra», Falcone delineerà tutti i codici verbali e non verbali impiegati dagli “uomini di mafia”, l’importanza di non lasciare tracce e di servirsi solo della memoria, la rilevanza dei valori e delle tradizioni, senza negare le difficoltà riscontrate nel lavoro svolto con i colleghi, per individuare prove realmente incriminanti, che conducessero alla condanna degli affiliati alle cosche.

Una della singolarità del metodo investigativo impiegato nel maxiprocesso è stata quella di risalire ad un movimento di capitali sospetti, con indagini finanziarie presso banche e istituti di credito in Italia e all’estero, ponendo in essere un’ampia attività di cooperazione mediante il lavoro congiunto di enti privati e Istituzioni pubbliche.

Falcone e il suo impegno internazionale

La lotta alla criminalità organizzata condotta da Giovanni Falcone ha contribuito all’istituzione, nel quadro delle Nazioni Unite, dell’Ufficio per il controllo del narcotraffico e la prevenzione del crimine (UNODC). Proprio dall’intuizione del Magistrato siciliano e allo scopo di avviare una cooperazione internazionale per la lotta alle mafie, nel 2000, nell’ambito dello UNODC, è stata approvata la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, nota anche come Convenzione di Palermo.

La Convenzione è stata recentemente modificata, con l’obiettivo di incrementare la cooperazione in materia penale. Tale attività di revisione e aggiornamento ha visto, quali protagonisti, l’Unione Europea, gli Stati Uniti, la Cina, il Giappone e la Federazione Russa, oltre che circa 800 esperti di nazionalità differenti, tra cui il Procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo Federico Cafiero De Raho, il Magistrato Antonio Balsamo e la Dottoressa Maria Falcone, sorella di Giovanni e Presidente della Fondazione Falcone, la quale ha dichiarato: «Oggi si realizza il sogno di Giovanni di una piena cooperazione tra gli Stati nella lotta alla criminalità organizzata. Davanti a mafie globali che operano ben oltre i confini nazionali, dare piena attuazione e migliorare la Convenzione di Palermo del 2000, era fondamentale».

Come lo ricordiamo oggi?

Nella strage di Capaci, insieme al grande uomo e Magistrato di cui abbiamo parlato sino ad ora, perdono la vita sua moglie, Francesca Morvillo, e tre Agenti della sua scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. La loro perdita e il loro sacrificio possono soltanto rendere questa battaglia, che si continua a combattere ancora oggi ­­– seppur con tecniche processuali e strategie associative diverse ­–, tanto più accesa quanto necessaria. Tale imperativo è prioritario per loro, per noi e per chiunque voglia improntare la propria vita sulla dignità e sull’integrità morale ovvero, per riproporre quello che diceva Rousseau, su una convivenza fondata sulla legalità.

Il Giudice ostinato, con la sua perseveranza atta a punire intoccabili, con il suo metodo inquirente unico e innovativo, ha rappresentato un modello di riferimento che, ancora oggi, costituisce un esempio imprescindibile per la lotta alla mafia. Una vibrante dichiarazione di impegno che, non può essere dimenticata, senza che si commetta un tradimento nei confronti della nostra società civile.  


[1] https://www.fondazionefalcone.it/biografia/

[2] https://www.focus.it/cultura/storia/giovanni-falcone-paolo-borsellino-il-coraggio-di-essere-eroi

[3] https://www.iconur.it/storia-degli-uomini/27-perche-il-sud-e-rimasto-indietro#quattro

[4] Ivi, https://www.fondazionefalcone.it/biografia/

[5] https://it.wikipedia.org/wiki/Cose_di_Cosa_Nostra_(saggio)

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