Fix It or Brexit

Sono state settimane cariche di eventi le precedenti per la Gran Bretagna: il 3 gennaio scorso le dimissioni a sorpresa di Sir Ivan Rogers, a pochi mesi dalla deadline indicata dal Governo di Theresa May per l’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona; il 16 gennaio la scelta della “linea dura” da parte del primo ministro britannico, che, in un discorso tenuto il giorno successivo a Lancaster House, ha affermato: «Cerchiamo una nuova partnership fra una Gran Bretagna globale, indipendente e sovrana e i nostri amici dell’Ue. Non vogliamo adesioni parziali, o qualsiasi cosa che ci lasci metà dentro e metà fuori».

Così la May ha chiarito il tipo di rapporto che il Regno Unito intende instaurare nel prossimo futuro con l’Unione e, al contempo, ha risposto alle critiche rivolte al suo Governo da Sir Rogers all’inizio di quest’anno. L’ex ambasciatore – prontamente sostituito da Sir Tim Barrow, a Mosca in qualità di diplomatico dal 2011 al 2015 -, nella lettera indirizzata al suo staff, aveva sostenuto «Non sappiamo ancora quali saranno gli obiettivi dei negoziati che il Governo fisserà per i rapporti del Regno Unito con l’Unione europea dopo l’uscita».

Sarà quindi “hard Brexit”, con grande soddisfazione non solo del Partito per l’indipendenza del Regno Unito (UKIP), ma anche di quel 51.9% dei cittadini britannici che il 23 giugno scorso aveva votato a favore del leave (contro il 48.1% per il remain), creando una spaccatura non solo con gli altri Stati membri, ma anche all’interno della stessa Gran Bretagna, considerato che Scozia e Irlanda del Nord avevano votato per rimanere.

Intanto, la Suprema Corte di Londra ha confermato la sentenza di novembre dell’Alta Corte, che negava al Governo la cosiddetta “prerogativa reale” – che in materia di trattati internazionali assegna al Primo ministro e ai ministri il potere di prendere decisioni senza consultare il Parlamento –, stabilendo la necessità del nulla osta parlamentare per l’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona.

Di fatto, lo scorso 24 gennaio, con otto voti contro tre, la Corte ha deciso che la Brexit debba passare attraverso il voto di entrambe le camere del Parlamento britannico – dei Comuni e dei Lord – perché, come rilevato a novembre dall’Alta Corte, l’uscita dall’Unione determinerà una modifica delle leggi interne al Regno Unito.

Un importante risultato per Gina Miller – l’imprenditrice filantropa che aveva dato avvio al procedimento giudiziario – e per il comitato di cittadini che si era raccolto attorno a lei. Meno soddisfatto il Governo May, che ha commentato così la decisione: «Delusi ma attueremo il verdetto».

Si apre ora una corsa contro il tempo per la May e i suoi ministri, che non hanno intenzione di cambiare il calendario previsto per la Brexit. Lo dimostrano le parole del ministro degli Esteri Boris Johnson su Twitter: «Attiveremo l’articolo 50 entro la fine di marzo.  Andiamo avanti!». Pare sia già pronto il progetto di legge da presentare ai due rami del Parlamento per la votazione che potrebbe non essere così scontata. Staremo a vedere cosa accadrà.

La Corte ha inoltre stabilito che le amministrazioni regionali di Scozia, Galles e Irlanda del Nord (i cosiddetti “devolved parliaments”) non dovranno essere consultate – il loro coinvolgimento, ha spiegato Neuberger, «è stabilito per “convenzione” e non per legge» -. Le polemiche al riguardo non sono mancate, al punto che in Scozia già si pensa alla possibilità di un secondo referendum sull’indipendenza.

Ma in quale situazione versa attualmente il Regno Unito? Per ora, a sei mesi dal voto del 23 giugno 2016, analizzando i dati economici si possono notare alcuni riscontri positivi: fatta eccezione per la crescita dell’inflazione e per la debolezza della sterlina – che dopo la dichiarazione di May lo scorso 16 gennaio è arrivata ad abbattere la soglia dell’1,20 sul dollaro -, le vendite al dettaglio sono in aumento, la disoccupazione ha raggiunto i minimi dal 2005 e si è registrato un boom in borsa delle piccole aziende inglesi. Nonostante gli «scenari da incubo» previsti (anche) dalla Bank of England nel caso di un’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, gli stessi economisti dell’istituto britannico hanno dovuto ricredersi, vista «la crescita del Pil attorno al 2%» nell’anno appena conclusosi.

Dati che fanno sperare in bene e che, almeno per il breve periodo, allontanano la paura di un tracollo del sistema economico del Regno Unito. Ma affermare «che l’economia britannica ha superato indenne Brexit […] sarebbe ardito», ha sostenuto Iain Begg, dello European Instituto (London School of Economics). Come ha sottolineato Nicol Degli Innocenti in un suo articolo su Il sole 24 Ore, «l’impatto di Brexit si sentirà sul medio termine e sarà negativo».

In altre parole, l’effetto Brexit non si è ancora fatto sentire, ma tale situazione non durerà ancora per molto. Nel lungo termine la Brexit potrebbe rappresentare un serio problema non solo per la Gran Bretagna, ma anche per l’intera Unione europea. Per il momento, considerata la resistenza e le prestazioni non negative dell’economia inglese, il Fondo Monetario Internazionale ha rivisto «al rialzo le stime di crescita della Gran Bretagna per il 2017, rivedendo [tuttavia] al ribasso quelle per il 2018».

Non ci è dato di sapere quello che realmente accadrà all’indomani della notifica di recesso al Consiglio europeo e dopo la vera e propria uscita del Regno Unito dall’Ue. Finora c’è solo spazio per supposizioni o previsioni. La speranza è che presto lo scenario economico e politico dell’Europa – e non solo – si faccia più nitido.

A cura di
Silvia Bruno
Andrei Palaia

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