I nuovi Stati balcanici e l’Unione Europea. Il caso della Serbia

Bandiera Serba e UE
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Riflessioni a latere del Seminario “I nuovi Stati balcanici e l’Unione Europea” promosso dal Master in Esperti in politica e in relazioni internazionali dell’Università LUMSA, in collaborazione con il Corso di Laurea magistrale in Relazioni internazionali, la Konrad-Adenauer-Stiftung Italien e l’Osservatorio Germania-Italia-Europa. Al Seminario ha preso parte l’Ambasciatore di Serbia in Italia, Goran Aleksic.

La Penisola balcanica, palcoscenico di tensioni e scontri rilevanti nella storia del secolo scorso, ha affrontato crisi di natura eterogenea, che hanno determinato la disgregazione della Jugoslavia. Le cause delle guerre jugoslave sono molteplici, alcune delle quali strettamente connesse alla riaffermazione di un’ottica nazionalista all’interno delle Repubbliche. In questo quadro storico, caratterizzato dal costante conflitto tra le minoranze etniche e religiose presenti nella Penisola, il processo di disgregazione delle Repubbliche si è definitivamente avviato in seguito all’ennesima richiesta di indipendenza del Kosovo. Sebbene sembrino superate le principali problematiche ereditate dal trascorso storico, in taluni settori permangono ancora le conseguenze delle guerre civili e degli scontri secessionisti.

Com’è noto, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, l’Unione ha ampliato i suoi orizzonti, includendo nel processo di integrazione anche i Paesi dell’Est Europa, i quali, a seguito dell’introduzione di riforme istituzionali volte ad allineare gli Stati candidati agli standard europei, hanno progressivamente aderito ai Trattati. Tra gli Stati con cui l’Unione ha avviato i negoziati ai fini dell’ammissione, vi è anche la Serbia che, al centro dei Balcani, svolge un ruolo determinante per la stabilità dell’intera Penisola.

La Serbia ha presentato domanda di adesione all’Unione Europea nel 2009, ottenendo dal Consiglio europeo lo status di Paese candidato nel 2012. Dopo una fase preparatoria, nel gennaio del 2014 sono stati avviati i negoziati di adesione. La necessità del rispetto dei criteri di ammissione previsti dall’UE – soprattutto con riguardo alle condizioni politiche, che afferiscono alla democrazia, allo Stato di diritto, ai diritti umani e ai diritti delle minoranze – ha rappresentato un incentivo all’attuazione di riforme volte all’avanzamento della procedura di adesione.

I negoziati in corso con la Serbia, tuttavia, hanno subito un notevole rallentamento; tra le cause dello stesso si annoverano certamente le tensioni con il Kosovo, il quale, sebbene si sia autoproclamato indipendente[1]nel 2008 e sia stato riconosciuto sul piano internazionale da 113 Stati membri dell’ONU, continua a essere considerato dalla Serbia come una propria provincia; invero, è interessante rilevare come anche all’interno dell’Unione Europea, vi siano cinque Stati[2].

Le tensioni tra Kosovo e Serbia sembra non siano destinate a cessare nel breve periodo e la Federazione Russa, che si è opposta al riconoscimento internazionale dello Stato del Kosovo, ha mostrato il suo appoggio a Belgrado, dichiarandosi disposta a intervenire nella questione, tramite l’invio di forze militari a tutela degli interessi serbi. Ci si è chiesti come e in che misura tale questione possa incidere sul rallentamento dei negoziati con l’Unione Europea, alla luce anche della partnership intercorrente tra Serbia e Russia. Il mancato riconoscimento dello Stato del Kosovo da parte della Serbia, continua a essere, oggi, una delle questioni più importanti nell’ambito dei rapporti tra Belgrado e Bruxelles, nonostante l’Unione Europea – anche mediante la figura dell’Alto Rappresentante, Federica Mogherini – abbia più volte tentato di incoraggiare le due parti a giungere a un compromesso. Le ragioni sottese all’importanza del Kosovo sono molteplici; tra queste, assume certamente rilevanza la centralità che questo territorio ha avuto – e, forse, continua ad avere – nell’ambito del confronto tra due storiche sfere di influenza, non solo politiche, ma anche valoriali: da un lato, l’Unione Europea e la NATO; dall’altro, la Russia. Il Cremlino, infatti, ha perso egemonia sul Danubio poco dopo la fine della Guerra fredda, quando, nel 2004, la NATO ha incluso tra i suoi membri anche Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia. Oggi, la cooperazione tra Serbia e NATO sembra consolidata, nonostante la Serbia non ne faccia ufficialmente parte. Sebbene la Russia detenga il diritto di veto in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – peraltro, già esercitato nell’ambito delle relazioni Serbia-Kosovo -, l’eccessiva vicinanza tra Belgrado e il Cremlino scatena, tutt’oggi, tensioni etniche che la Serbia dovrebbe dirimere e prevenire, alla luce degli sforzi posti in essere per aderire all’Unione Europea. In assenza della minaccia russa di esercitare il diritto di veto, tuttavia, le potenze occidentali – prima tra tutte, gli Stati Uniti – potrebbero garantire l’adesione del Kosovo alle Nazioni Unite.
Nonostante la secessione non sia riconosciuta come un diritto sul piano giuridico internazionale, e sebbene l’Unione non sembri subordinare l’ammissione alla risoluzione della controversia con il Kosovo, tale questione costituisce, tutt’oggi, uno degli ostacoli che impediscono la progressione dei negoziati di adesione.
Nell’intera Penisola balcanica, comunque, non sono definitivamente cessate le ragioni di conflittualità tra gli Stati, acuite – come già evidenziato – dalla presenza di diverse minoranze etniche e religiose, i cui contrasti si ripercuotono tanto in Serbia, quanto in Croazia e in Bosnia ed Erzegovina, condizionando inevitabilmente anche il processo di integrazione. La rilevanza che l’Unione conferisce alla tutela delle minoranze è confermata proprio dalle stesse condizioni politiche di adesione, che contemplano specificatamente tale parametro.

Le crisi del 2008 e del 2011 – che hanno inciso notevolmente sulle economie di alcuni Paesi europei -, lo sviluppo di un crescente euroscetticismo, l’ascesa di partiti politici demagogici, le questioni connesse al fenomeno migratorio[3]e le incertezze maturate a seguito della Brexit, hanno contribuito al rallentamento dei negoziati, richiedendo all’Unione un notevole sforzo politico interno, che ha inevitabilmente influenzato la politica di allargamento.
Le eterogenee questioni a cui si è fatto cenno, non hanno tuttavia ridotto la volontà della Serbia di accedere all’Unione: nell’ottica serba, nonostante la crisi del processo di integrazione europea, l’Unione costituisce tutt’oggi un’assoluta priorità, sia in ragione della consolidata partnership sul piano commerciale, sia in virtù dei benefici derivanti dall’attuazione degli strumenti previsti dal diritto dell’UE, nell’ambito della strategia di pre-adesione. Secondo i recenti sondaggi riportati dall’Ambasciatore di Serbia in Italia, Goran Aleksic, circa il 66% della popolazione serba sembra favorevole all’adesione all’Unione Europea.
Sul piano commerciale, il principio della libera circolazione di merci e persone sembra non costituire un grosso ostacolo nell’ambito dei negoziati tra Serbia e UE, sebbene a Belgrado venga richiesto, in tali questioni – contenute nei capitoli 1 e 2 dell’Acquis -, un maggiore sforzo. La percezione dei cittadini serbi in relazione alla presenza di lavoratori stranieri provenienti dai Paesi confinanti sembra essere positiva e si traduce nell’esistenza di forme di integrazione che, parallelamente, rappresentano un beneficio sia per Belgrado, che accoglie manodopera a costi inferiori, sia per i lavoratori stranieri, che godono di condizioni economiche migliori rispetto a quelle offerte dai Paesi d’origine.
La divergenza nelle strategie, soprattutto nell’ambito della politica estera[4], e il contrasto più volte manifestato sul piano valoriale, impediscono la progressione dei negoziati di adesione, con specifico riguardo ad alcuni capitoli dell’Acquis: la disciplina in materia di politica estera e di sicurezza e difesa comune – contenuta nel capitolo 31 -, le questioni connesse alle relazioni con il Kosovo – incluse all’interno del capitolo 35 – e l’implementazione delle riforme volte all’applicazione delle condizioni politiche – di cui ai capitoli 23 e 24 -, richiedono notevoli sforzi, in vista di un reale avanzamento dei negoziati.
Alla luce delle considerazioni sopra esaminate, appare chiaro come l’adesione della Serbia all’Unione Europea rappresenti tutt’oggi una priorità e, forse, un’occasione per rilanciare il processo di integrazione. Il caso serbo, in quest’ottica, sembra suggerire la necessità di riflettere sui valori fondanti del progetto comunitario, richiamati nell’ambito della procedura di ammissione, ai quali l’art. 2 TUE fa espresso riferimento, disponendo che: «l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze».
L’auspicio è di dare un nuovo impulso al processo di allargamento dell’Unione, senza rallentare, al contempo, il processo di integrazione: la riaffermazione di un’identità europea, strutturata sui valori fondanti dell’UE, dunque, sembra porsi nuovamente come condizione indispensabile per superare le attuali crisi che minacciano il futuro dell’Unione.


[1]Nel Parere del 22 luglio 2010 sull’indipendenza del Kosovo, la Corte internazionale di giustizia ha ritenuto che non siano state commesse violazioni né delle norme appartenenti al diritto internazionale generale, né di quanto nella risoluzione n. 1244 del giugno 1999 (S/RES/1244), con la quale il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ha autorizzato una presenza internazionale civile e militare nel Kosovo, ponendolo sotto l’amministrazione provvisoria dell’ONU. Nonostante il parere della Corte fornisca un’utile chiave interpretativa, esso non contiene una chiara presa di posizione sulla reale acquisizione della qualità di Stato per il Kosovo, rimettendo la determinazione della questione alla discrezionalità politica degli Stati.
[2]Spagna, Cipro, Romania, Slovacchia e Grecia. E’ interessante rilevare come tali Paesi abbiano riscontrato, sul piano interno, problematiche connesse all’indipendenza di regioni autonome o a conflitti con gli Stati limitrofi: la Spagna, con la Catalogna e i Paesi Baschi; Cipro, che risulta divisa al suo interno; Romania e Slovacchia, dove sono attualmente presenti tensioni con le minoranze magiare; e Grecia, per le irrisolte problematiche prodotte dalla questione macedone.
[3]Le questioni connesse al fenomeno migratorio si impongono con particolare clamore, oggi, nell’area dell’Est Europa; in Serbia, tuttavia, gli effetti della migrazione – con specifico riguardo all’ondata causata dalla crisi siriana – sono stati attenuati dalla presenza dell’accordo UE-Turchia del 18 Marzo 2016.
[4]Un esempio tipico che permette di cogliere tale divergenza è rappresentato dalla profonda differenza circa l’interpretazione e l’attuazione del sistema sanzionatorio, tanto sul piano interno, quanto su quello internazionale; a riguardo, è opportuno ricordare l’opposizione della Serbia – per ragioni eterogenee – all’applicazione delle sanzioni internazionali contro la Federazione Russa.

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